A Campobasso Iacopino ha parlato della figura atipica del giornalista assassinato

Mino Pecorelli, Op e 36 anni di misteri e bugie

Mino Pecorelli

Mino Pecorelli

CAMPOBASSO – “La figura atipica di Mino Pecorelli negli anni della lotta armata” è stata al centro di un evento formativo per i giornalisti organizzato, a Campobasso, dall’Ordine dei giornalisti del Molise. Nell’aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Unimol, il presidente nazionale dell’Odg, Enzo Iacopino (autore del libro “Pecorelli” scritto nel 1983), ha detto che “la successione delle cose che nell’agenzia Op venivano rivelate era tale da porsi sempre delle domande e non c’è argomento che negli anni successivi non si sia imposto all’attenzione della magistratura che non fosse stato già affrontato sulle pagine di Op”.
Originario di Sessano del Molise, Mino Pecorelli con le sue inchieste e le sue puntigliose critiche nei confronti della politica finì per portare il giornale da lui diretto, Op, ad essere temuto da molti fino al punto di perdere la vita il 20 marzo 1979 a Roma, ucciso in circostanze ancora poco chiare.
Mino Pecorelli fu assassinato, il 20 marzo 1979 in via Orazio a Roma, da un sicario che gli esplose quattro colpi di pistola nei presso della redazione del giornale. I proiettili con i quali è stato ucciso, Gevelot calibro 7,65, rari da reperire sul mercato, risultarono dello stesso tipo di quelli trovati nell’arsenale della banda della Magliana, nei sotterranei del Ministero della Sanità. Nelle indagini vennero coinvolti Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della banda della Magliana), Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, tutti prosciolti il 15 novembre 1991. In seguito l’attenzione circa i possibili mandanti si spostò su Licio Gelli e Cosa nostra e su Antonio Chichiarelli della Banda della Magliana.
Il 6 aprile 1993, però, il pentito Tommaso Buscetta parlò per la prima volta dei rapporti tra politica e mafia riferendo di aver appresso dal boss Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli sarebbe stato compiuto nell’interesse di Giulio Andreotti. Un’indagine che coinvolse anche l’allora pm Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò (in qualità di mandanti) e Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati (esecutori materiali). Tutti assolti il 24 settembre 1999 “per non avere commesso il fatto”.
Il 17 novembre 2002, la Corte d’Assise d’appello di Perugia condannò Andreotti e Badalamenti a 24 anni di reclusione come mandanti dell’omicidio confermando, invece, l’assoluzione per i presunti esecutori materiali dell’omicidio. La condanna di Andreotti e Badalamenti fu, infine, annullata dalla Corte di Cassazione, il 30 ottobre 2003, affermandone definitivamente l’innocenza. Un altro processo a carico di Andreotti, pur dichiarando i fatti prescritti, stabilirà però che questi ebbe rapporti stabili e amichevoli con Cosa nostra fino al 1980.

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