ROMA – Ci sono tanti perché all’origine di questa giornata di studio, tanti perché legati alla complessità delle situazioni che, all’interno dei nostri rapporti di lavoro, vanno sfumando antiche certezze e lontane virtù. La velocità del giornalismo, scritto e parlato, se da un lato ha tolto romanticismo al vecchio artigianato di redazione, dall’altro è andata via via determinando un nuovo ordine di comportamenti. In altre parole il nuovo mondo dell’informazione ha prodotto problemi inaspettati, frutto di orizzonti editoriali e redazionali inediti o impensati, cosicché l’universo consolidato delle vecchie regole ha subìto l’impatto con un nuovo pianeta che impone altri e diversi punti di riferimento.
C’è il pericolo di un uso distorto delle tecnologie, che potrebbe intaccare i princìpi fondanti che regolano il rapporto giornalista-lettore, come l’affidarsi eccessivamente al Web quale fornitore di notizie, cosa che può indurre a dare per fonte privilegiata e, ancor peggio, ufficiale ciò che invece non è, portando di conseguenza a male informare o addirittura a influenzare l’opinione pubblica in un modo anziché in un altro, mentre ben sappiamo che le notizie vanno sempre nettamente distinte dalle opinioni e dai commenti. Non si vuol dire con questo che succeda, ma la tentazione può esistere.
Noi siamo convinti che la rete offra occasioni prima impensate, purché nel giornalismo resti sempre l’uomo al centro dell’attenzione e non il pettegolezzo sull’uomo, cosa che potrebbe capitare dando eccessivo credito, per esempio, ai cinguettii di Twitter o alle discussioni da piazza di Facebook. Importante è ricordare che se nell’era digitale cambiano i mezzi, nell’era digitale non cambiano i canoni dell’etica e della deontologia. Invece il moltiplicarsi oggi, grazie alle tecnologie, di varie forme di informazione moltiplica ovviamente la possibilità di contenziosi che non sempre è facile far rientrare entro i confini delle regole finora stabilite dalle nostre Carte. Perché ovviamente una cosa è la violazione della legge, un’altra è quella delle Carte che permettono anche di essere non piegate, ma interpretate secondo le circostanze.
Come si vede un tema che non sorge oggi se già nel 1989, parlando al Congresso di Bormio, l’allora presidente del Collegio nazionale dei probiviri, Favret, avvertiva l’urgenza di una riflessione attorno ad un ruolo – quello dei probiviri appunto – destinato a continue verifiche “perché tanto più incalzanti diventano le offerte di informazione alimentate dallo sviluppo delle tecnologie, tanto più si affina il gusto del lettore e, maturando, il destinatario del nostro lavoro acquista via via maggiori capacità di giudizio e di critica e vuole chiarezza e deve credere nella genuinità” di quello che facciamo.
Oggi, a grande distanza da quel Congresso, il Collegio nazionale dei probiviri riprende il filo dei ragionamenti, peraltro mai interrotto ma mai proposto in termini di riflessione organizzata, rivolgendosi ai Collegi regionali e ai colleghi in qualche modo e a vario titolo coinvolti nel mondo della cosiddetta deontologia sindacale. E’ peraltro un’esigenza che trova conferma in segnali di disagio da parte di qualche Collegio regionale alla lettura di nostre decisioni. Crediamo che la risposta più seria e più utile alla causa comune sia quella del dialogo costruttivo, senza nulla togliere al Congresso che lo Statuto indica come sede privilegiata per il confronto su questi temi. Lì si fa il punto dell’attività del Collegio nazionale, che può essere anche il risultato di dibattiti maturati lungo la strada fra un Congresso e l’altro.
Il ricorso vero protagonista
Perché facciamo questo discorso? Perché ogni ricorso che il Collegio affronta è diverso da quello esaminato il giorno prima, magari tutti uguali nell’apparenza e pure nella sostanza, ma ognuno con caratteristiche tali da richiedere letture diverse, il che vuol dire capacità di armonizzare ogni singola circostanza con gli strumenti operativi, vale a dire statuti e regolamenti. Ecco perché parliamo di ruolo dei probiviri, di natura e limiti, di settori di competenza, di raggio d’intervento e così via.
Prima di affrontare un ricorso dobbiamo chiederci sempre qual è il nostro ruolo. Sempre, in ogni momento, in ogni fase delle nostre istruttorie, perché ogni ricorso nasconde una storia personale, ogni sanzione può diventare una sconfitta umana oltre che professionale per il collega che la riceve. Va tutto ponderato, misurato, dibattuto. Anche se riferita ad una stessa materia, una situazione non è mai uguale all’altra, ma questo vuol forse dire che avrebbe diritto ad avere una sua regola fatta su misura? Non è questo ovviamente il problema. Ci sono infinite pieghe nella realtà del lavoro di redazione e basta a volte poco per allontanare una situazione da un modello prestabilito, da una categoria prefissata. E allora che si fa? Una norma, pur nella sua formulazione lineare, è sempre difficile da leggere, da interpretare. Non tenere conto delle tante sfaccettature di una vicenda vuol dire ignorare l’essenza della professione giornalistica che vive oggi in molteplici forme.
Il Collegio dei probiviri non è un mero lettore e interprete di norme, è infatti anche interprete dei comportamenti. Il suo campo d’azione è dunque più ampio, è complessivo e complesso, i suoi ragionamenti devono essere finalizzati a questo principio guida che è la nostra bussola. Se non si tiene conto di questa bussola ha poco senso l’esistenza dei probiviri. Non c’è bisogno dei probiviri per decidere se c’è una violazione di Statuto e per sancire di conseguenza l’applicazione di una sanzione, per questo sarebbe sufficiente un giudice terzo (anche avulso dalla vita del Sindacato, non una sua parte attiva che ne condivida e ne difenda i principi generali come è per i nostri Collegi pur nella piena autonomia e indipendenza del loro operato per Statuto insindacabile) sarebbe sufficiente cioè un lettore terzo che dica: guarda che hai violato lo Statuto.
I probiviri guardano oltre, entrano nello spirito della norma, devono andare al di là della lettera e qui il problema diventa sottile, può apparire anche contraddittorio, non si dice della pretesa di entrare nell’intimo di un collega per indagarne i moti dell’anima e del pensiero, come in una specie di algoritmo che riveli la vera spinta che ha determinato quel comportamento e non un altro. Non è questo che si cerca, ma un’analisi la più profonda possibile, con la capacità di riconoscere le attenuanti o le aggravanti usando spirito critico, buonsenso, equilibrio, vale a dire tutte le armi della cultura giornalistico-sindacale e non, di cui deve essere capace un Collegio rappresentativo di tutte le realtà geografiche e di tutte le anime associative del Sindacato. Ed è appunto quando si ritiene violato lo spirito di appartenenza al Sindacato che ci si rivolge ai probiviri. Pesano le violazioni nocive per il Sindacato. Ciò che conta in definitiva è verificare se c’è uso distorto e in malafede dei principi generali che stanno alla base della disciplina sindacale.
I Probiviri come giudici conciliatori
La sensazione di questo Collegio è che il mondo giornalistico – per gli aspetti sindacali che ci riguardano e solo per quelli – sia cresciuto in modo tale da attenuare i tradizionali riferimenti di autodisciplina, rendendo sempre più difficile la convivenza, esasperando i conflitti interni alle redazioni, alimentando climi di litigiosità per cui il ricorso ai probiviri diventa troppo spesso l’unica via d’uscita per risolvere questioni altrimenti rinviabili ad un’etica individuale che talvolta è fin troppo attenuata. Per cui questo appello alle regole diventa più pressante proprio in un’epoca in cui sembra farsi strada, al contrario, una richiesta di alleggerimento normativo, una sorta di deregulation che si sta insinuando in tutti i settori del vivere quotidiano.
Eppure non dovrebbe essere difficile, per quanto riguarda il nostro mondo, riuscire a saldare le norme di Statuto con un dialogo con i protagonisti delle “controversie” (così lo Statuto definisce l’ambito d’intervento dei probiviri). E’ a portata di mano, se si vuole, un correttivo che ha precedenti significativi nella lunga vicenda storica del Collegio nazionale quando, ad esempio, nel settembre 1944, affrontando un ricorso del giornalista Vittorio Statera che denunciava un trattamento diffamatorio da parte del giornale satirico Cantachiaro nella rubrica “Sottovoce” firmata dal giornalista Franco Monicelli, il Collegio dà mandato al suo presidente di prendere contatto con le parti in lite “in forma confidenziale e con spirito di amichevole trattativa”. Lo Statera si era lamentato del fatto che l’attacco del Cantachiaro gli aveva precluso la via per sistemarsi nella professione ed aveva chiesto pertanto un giudizio arbitrale. La vertenza si risolverà onorevolmente dopo il richiamo dei probiviri al buonsenso: “la stampa non può essere libera se non si fa rispettare e non può farsi rispettare se non rispetta se stessa. E’ nel suo stesso interesse tenere alto il prestigio dei propri Organi professionali”.
E’ chiara l’opera di mediazione che appare come una competenza specifica del Collegio, non contemplata nello Statuto dell’epoca ed oggi presente in forma marginale e a livello di Regolamento come possibilità affidata unicamente alla richiesta delle parti. Questo esempio storico di mediazione, di intervento al di là dei meccanismi tecnici di una controversia, propone già un’ipotesi di arricchimento dello Statuto che potremmo definire di giudice conciliatore. Ciò che avviene anche ai nostri giorni da parte di quale Collegio regionale che già segue questo interessante percorso.
Deontologia sindacale
Detto questo, il nostro Statuto affida ai probiviri il compito di regolare le “controversie” (intese come dispute, divergenze di idee, mentre in passato, stando all’ossatura storica dei Collegi probivirali, erano intese anche come vertenze di lavoro) “relative sia alla disciplina associativa e sindacale sia al comportamento degli iscritti non conforme alle regole della correttezza professionale e tale da ledere il prestigio dell’organizzazione” (art. 28). Altro non si dice sulla competenza del Collegio in materia disciplinare, salvo concedergli spazio due articoli dopo per formulare pareri su questioni di indole morale, di etica professionale e di natura sindacale, ancorché non proposti in primo grado, vale a dire in forma autonoma, non legati a un ben definito ricorso.
Si sa però che la materia deontologica sta per legge in capo all’Ordine. E’ ben vero che qui il tema deontologico è posto in un’ottica sindacale, cioè nell’ambito esclusivo dei rapporti di lavoro, ma questo vuol dire che un comportamento censurabile sotto l’aspetto deontologico è sottoposto a una doppia lettura e non sempre il confine fra le due situazioni – deontologia in senso generale e deontologia applicata ai rapporti sindacali – è netto e ben riconoscibile.
E’ forse questo il punto da cui partire. Direi che questa giornata è un momento di passaggio di un dialogo già in corso fra il Nazionale e i Collegi regionali. Si trattava solo di portarlo alla luce, di renderlo più operativo, più propositivo. C’è una gran quantità di interrogativi attorno al nostro lavoro comune, alcuni di ordine pratico, di aggiornamento o di armonizzazione delle norme per evitare incomprensioni fra i due livelli, ma anche di altro tipo, perché talvolta i giudizi di primo grado sono determinati o condizionati da realtà locali non sempre percepibili in tutto il loro significato dal Collegio nazionale.
Un tema infinito è poi quello del limite delle competenze sul terreno dei rapporti di lavoro. Vanno definite anche le regole di principio per l’elezione del CdR, le procedure di scrutinio, le procedure che precedono il voto, vanno fissate le incompatibilità di incarico nelle Commissioni elettorali per evitare i troppo frequenti contenziosi. Bisogna sapere fin dove la mancanza di regole scritte può rendere legittimo il ricorso alla prassi. C’è poi il problema sottile della clausola compromissoria, rispetto alla quale il Collegio nazionale si è regolato finora proprio sulla base di un parere di Del Vecchio, in assenza di precisi riferimenti di Statuto. Questa, insomma, è solo la punta dell’iceberg, mentre molti altri interrogativi usciranno certamente dal confronto di oggi.
Un contributo prezioso all’evoluzione della giurisprudenza probivirale – ma non è l’unico – è venuto ad esempio dal Collegio della Romana sul tema della incompetenza da noi dichiarata, in un recente lodo, a decidere su questioni di lavoro. Tema che ha sollevato con spirito costruttivo il collega Cionti, presidente di quel Collegio, proprio nell’ottica della costante evoluzione e del cambiamento in atto nella nostra professione e al di là di norme che – rubo le parole a Cionti – ci portano a “decidere di non decidere”.
La speranza è che da questo dibattito possa uscire un profilo aggiornato della figura del proboviro e qualche necessario restauro dello Statuto al quale sta lavorando l’intero Collegio, per la parte relativa alla vita dei probiviri, sia ben chiaro, (vale a dire 4 articoli di Statuto e 12 di Regolamento) con il coordinamento di Pier Paolo Cioni, mentre Marco Volpati sta raccogliendo le idee per il secondo quaderno di giurisprudenza in vista del prossimo Congresso, continuando nell’esperienza aperta da Romolo Acampora nel precedente Collegio nazionale.
Le premesse sono di largo raggio, come si vede, sono di concetto ma anche di praticità, è l’occasione di interrogarsi sul futuro. Ci sarà forse bisogno di camminare assieme per un po’ cercando di uniformare, lì dove è possibile, di trovare un’armonia di intenti e di princìpi (che è quello che serve al Sindacato e a cui il convegno vuole contribuire senza pretesa di dire parole definitive), di approfondire in definitiva un discorso di cultura dell’associazionismo e dello stare insieme, che è nello spirito del nostro Sindacato.
Toni Cembran
Presidente Collegio nazionale dei Probiviri Fnsi