Dalla casa all'utilitaria, dai risparmi al nero. Il vero nemico: le disuguaglianze sociali

Il ritorno del ceto medio sull’onda della sobrietà

CensisROMA – Gli italiani si sentono ancora ceto medio. Pensando alla propria condizione economica attuale, il 54% degli italiani si sente ceto medio, il 18% classe lavoratrice e il 16% ceto popolare. Tra gli insegnanti e gli impiegati la percentuale di chi si definisce ceto medio sale al 55%, e supera il 60% tra i pensionati e le casalinghe.
Anche il 31% di operai e contadini si dice ceto medio, sebbene la maggioranza (il 38%) si senta classe lavoratrice. E pure il 53% dei millennials (i giovani di 18-34 anni) si autopercepisce come ceto medio, mentre solo il 9% di loro fa coincidere la proprietà identità sociale con la condizione di precario. Persino le persone con un reddito fino a 1.000 euro mensili si definiscono in maggioranza (il 34%) ceto medio, il 28% ceto popolare e il 17% povere.
Appartenere al ceto medio vuol dire soprattutto sentirsi simili alle persone che hanno lo stesso stile di vita (lo pensa il 27% degli italiani) nel rapporto con i soldi, nei consumi e nel modo di spendere il tempo libero. Nonostante i sette anni duri della crisi, in Italia il ceto medio vince ancora, come mentalità e come modello di vita.
La casa ai figli: resiste il pilastro patrimoniale del ceto medio
Lasciare la casa ai figli è il modo in cui oggi 11,3 milioni di famiglie italiane pensano di dare un aiuto ai loro discendenti. Sono 2,3 milioni le famiglie che li sosterranno dandogli un anticipo per l’acquisto di un’abitazione o fornendo le garanzie per ottenere un mutuo. E 1,1 milioni di famiglie aiuteranno i figli lasciando loro un immobile di proprietà diverso dalla casa.
Il mattone come forma di sostegno per il futuro è una propensione antica, confortata dai più recenti segnali di ripresa del mercato immobiliare. Le compravendite di abitazioni sono ripartite: +3,7% nel terzo trimestre del 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e +13,9% i mutui. I tassi di interesse sui mutui ai minimi storici (i variabili all’1,5%, i fissi intorno al 3%) danno una spinta al mercato. E se la ripresa dei consumi ancora non si vede, ciò dipende dal fatto che oggi domina la sobrietà.
Il ciclo del consumismo come simbolo di stato si è chiuso per il ceto medio, ma dopo un lungo periodo di stallo tornano i consumi tipici della middle class, come l’automobile nuova. A gennaio le immatricolazioni delle auto piccole, medie e delle utilitarie sono aumentate dell’11,6% rispetto al gennaio 2014, a fronte di un -3,2% registrato nello stesso periodo nel segmento superiore e di alta gamma.
La sobrietà: una vocazione da formiche ci salverà
Se si vuole preservare lo status da ceto medio, si deve continuare a risparmiare e consumi più sobri aiutano. Sono 26,3 milioni gli italiani che, se oggi avessero più soldi, li utilizzerebbero per metterli da parte su un conto corrente, mentre 14 milioni li destinerebbero ai consumi. Non a caso, la propensione al risparmio è salita al 10,8% nel terzo trimestre del 2014, con un flusso di 29,5 miliardi di euro di denaro accantonato: il valore trimestrale più alto dal 2009. Al centro dello stile di vita del ceto medio non c’è più il consumo. Nel post-crisi vince la sobrietà e la voglia di rifare patrimonio dopo sette anni di difficoltà.
Quanto ceto medio si alimenta di sommerso
Il 41% degli italiani che nell’ultimo anno hanno fatto ricorso ai servizi di artigiani (idraulici, elettricisti, imbianchini, falegnami, ecc.) ha pagato in nero, senza fattura. Anche il 22,5% di chi si è rivolto a qualche professionista (avvocati, geometri, architetti, ingegneri, ecc.) ha saldato in contanti e in nero la parcella. Come pure il 19% di chi ha richiesto prestazioni a strutture e professionisti sanitari (medici, dentisti, laboratori di analisi, ecc.). Spuntare prestazioni a prezzi più abbordabili tagliando la quota della fiscalità, produrre porzioni di reddito attraverso una ri-sommersione nel nero: anche questo fa ceto medio.
Dove sta nascendo il nuovo ceto medio: le soglie basse di ingresso
Il saldo tra imprese aperte e chiuse nel 2014 è positivo: +30.700. L’incremento è solo dello 0,5%, ma le aziende muoiono meno che in passato. Nell’ultimo anno le cessazioni sono state 340.261, cioè 31.541 in meno rispetto al 2013 (il dato più basso dal 2010), mentre sono nate 370.979 nuove imprese. Questa è forse la volta buona che si uscirà dalla crisi.
Si avvertono tenui segnali sentinella, diversi e apparentemente slegati, di sicura novità rispetto alla cupezza della lunga stagione di crisi. Che dipenda dai risparmi tenuti congelati troppo a lungo, dal basso costo del denaro, dall’euro debole sul dollaro, dal prezzo del petrolio in picchiata, qualcosa comincia a muoversi per il ceto medio. Si aprono soglie basse di ingresso in settori un tempo blindati o resi inavvicinabili dalla crisi.
A decollare nell’ultimo anno sono state soprattutto le iniziative a basso investimento iniziale, con costi di avviamento contenuti anche per la caduta delle locazioni commerciali, nelle attività di alloggio e ristorazione (+10.910 imprese), nei servizi di supporto alle imprese (+9.290) e nel commercio (+7.544). Sono questi i settori che si presentano come i veri incubatori in cui dal basso si va ricostituendo il nuovo ceto medio. Magari con il supporto dei soldi dei genitori, nel caso dei giovani, o di interi gruppi familiari, nel caso degli immigrati, si formano germi di nuovo ceto medio in attività d’impresa visibili a occhio nudo nel quotidiano.
Nel boom della ristorazione, i take away, le friggitorie, i punti vendita di cibi da asporto sono aumentati di oltre 9.200 unità locali nei quattro anni di crisi 2009-2014 (+29%, oggi sono 41.200). Come pure nella vendita al dettaglio per corrispondenza, tramite internet e distributori automatici (oltre 9.600 unità locali in più, ovvero +30%, e oggi sono quasi 41.200). E nelle gelaterie e pasticcerie (oltre 2.000 unità locali in più, cioè +9%, e oggi sono più di 25.000).
Il vero nemico del ceto medio? Le incolmabili disuguaglianze sociali
Se dal basso si prova a rifare ceto medio, stonano le diseguaglianze sociali crescenti, segnate dai picchi di reddito e di patrimonio solo di alcuni, che anche nella crisi hanno continuato a guadagnare o comunque hanno perso meno degli altri. Tra il 2007 e il 2013 il 10% di italiani più ricchi ha subito una diminuzione media annua del reddito disponibile dell’1,6% in termini reali, mentre quello del 10% di italiani più poveri si riduceva mediamente del 3,8% ogni anno (due volte e mezza di più). Oggi il reddito di quel 10% di italiani più ricchi è pari a 11,1 volte quello del 10% di italiani più poveri, e la forbice si è allargata negli anni della crisi, perché nel 2007 i primi superavano i secondi «solo» 9,8 volte.
Questi sono i risultati del 10° numero del «Diario della transizione» del Censis, che ha l’obiettivo di cogliere e descrivere i principali temi in agenda in una difficile fase di passaggio attraverso una serie di note di approfondimento diffuse nel 2014 e nel 2015. I numeri precedenti sono stati: «L’austerity ha stancato gli italiani: sobri sì, asceti no» (28 aprile 2014), «Crescono le diseguaglianze sociali: il vero male che corrode l’Italia» (3 maggio 2014), «I disabili, i più diseguali nella crescita delle diseguaglianze sociali» (17 maggio 2014), «Acqua: tariffe più basse d’Europa e record di acqua minerale, acquedotti colabrodo e depuratori carenti» (24 maggio 2014), «Scuola: intonaci che crollano, rubinetti che perdono e vetri rotti» (31 maggio 2014), «Cattiva reputazione per l’Italia: -58% di investimenti esteri dall’inizio della crisi» (7 giugno 2014), «Lo spread digitale costa all’Italia 10 milioni di euro al giorno di minori investimenti in reti, tecnologie e servizi innovativi» (5 luglio 2014), «Decollo della scuola digitale? La bolletta per internet veloce è di 7,9 euro al mese per studente» (13 settembre 2014), «L’azienda più liquida d’Italia? Gli italiani» (20 settembre 2014). (Censis)

I commenti sono chiusi.