MILANO – Ha ancora senso oggi parlare di giornalismo di inchiesta? Serve davvero a qualcosa? Un tempo si diceva che un bravo giornalista di inchiesta “smuovesse il mondo”, “ribaltasse le inchieste”, “mettesse in crisi i grandi soloni del diritto”, ma oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale al servizio anche della comunicazione, ha ancora un senso il giornalismo investigativo? Non c’è il rischio che sia soltanto un “giornalismo gridato”, molto più simile al gossip, e per nulla concludente?
A quanto pare no. Anzi – ne siamo più che convinti – assolutamente no. Nel senso che un buon giornalista di inchiesta, se bravo e rigoroso, attento e dettagliato nel racconto che fa, è ancora in grado di ribaltare le tante “verità ufficiali” che ci vengono dalle aule dei processi di mezzo mondo.
Uno dei testimoni più iconici del giornalismo d’inchiesta di questi anni in Italia è certamente il giornalista calabrese Felice Manti, caporedattore centrale del quotidiano Il Giornale, che da anni segue e si occupa della strage di Erba, e a cui ha persino dedicato uno dei suoi libri più letti e più discussi di questi anni. «Oggi, la riapertura della vicenda processuale legata alla strage di Erba – riconosce Manti – decisa dalla Corte d’Appello di Brescia è una vittoria che mi ripaga di tante amarezze e che restituisce lustro al giornalismo d’inchiesta, proprio adesso che la gogna social ha mostrato tutto il suo cinismo bisogna rivalutare i quotidiani che fanno davvero informazione».
Felice Manti è caratterialmente uno di quei cronisti di razza che non molla mai la preda se non a lavoro chiuso, quando cioè si è finalmente convinto della serietà delle sue ricerche e delle prove acquisite a favore della sua tesi. Un numero uno in tutti i sensi sotto questo profilo.
È stato così nel caso della Strage di Erba, lavoro il suo – lo ricordiamo – sfociato in un libro che, alla luce di quello che è avvenuto in questi giorni, varrebbe la pena di rileggere.
«Quando, nel febbraio del 2008, uscì “Il grande abbaglio – controinchiesta sulla strage di Erba”, per l’Italia intera Olindo Romano e Rosa Bazzi erano due mostri. Il libro – ricorda Felice Manti – fu accolto da un diluvio di polemiche. Sui coniugi, che stavano per essere processati, c’erano prove considerate granitiche e questo volume le metteva tutte in discussione: era stato scritto che l’unico superstite della strage avesse riconosciuto subito in Olindo il suo aggressore. Ma non era vero. Era stato detto che c’era una traccia delle vittime sull’auto della coppia che solo loro potevano avere portato. Ma non era vero. Era stato urlato che le loro confessioni fossero dettagliatissime e sovrapponibili. Ma non era vero nemmeno questo».
Felice Manti in tutti questi anni ha dedicato alla strage di Erba tutte le sue energie, e tutta la sua passione, la tenacia di fare il cronista fino in fondo, una vita di ricerche, di incontri personali, di indagini parallele a quelle della polizia giudiziaria, di raffronti con degli indizi di prova che sembravano all’inizio granitici e quasi sacri, e che alla fine hanno poi prodotto però una verità storica completamente diversa da quella acquisita dai tribunali e dagli inquirenti.
«Troppe volte – riconosce – dietro delle sentenze o delle archiviazioni ci sono indagini pasticciate, omissioni, inquirenti che si prendono libertà che non dovrebbero prendersi eccetera. Non dico altro».
– Un’analisi pesante la tua, non credi Felice?
«Ne “Il grande abbaglio”, ti assicuro, chi vorrà davvero informarsi sulla vicenda che vede protagonisti Rosa e Olindo, ne troverà le prove. Leggilo anche tu. Oggi che tanti dubbi sono stati sollevati sulla colpevolezza di Olindo e Rosa e che il dibattito sulla coppia si è riaperto, il libro viene riproposto con alcuni aggiornamenti finali, sulla base delle scoperte fatte da noi sul caso, e credo valga pena di leggerlo fino in fondo».
Evviva, dunque, il giornalismo di inchiesta, che in questo caso ha prodotto nella vita personale del caporedattore centrale de “Il Giornale” momenti anche di grande amarezza e di profondo sconforto generale.
«Quando agli inizi del 2008 uscì “Il grande abbaglio – controinchiesta sulla strage di Erba”, la critica più gentile che ci rivolsero fu che fossimo degli sciacalli. Il caso era già stato dato per chiuso da un anno, con miriadi di speciali televisivi, ospitate tv di avvocati di parti civili, criminologi ed esperti, perfino un libro e una fiction che vedevano Olindo Romano e Rosa Bazzi nei panni dei feroci assassini. E il processo non era ancora cominciato».
– Cos’è che, secondo te, mancava in quel puzzle mediatico?
«Vedi, in questo circo mediatico in cui i mostri dovevano solo attendere la condanna, non c’era mai stata una sola finestra per la difesa. Mai. Ma da un paio di mesi, leggendo semplicemente gli atti dell’accusa, avevamo iniziato a scrivere su “Il Giornale” che le cose non erano esattamente come le avevano raccontate, anche se incredibilmente nessuno sembrava essersene accorto. Era stato detto per un anno che il testimone Mario Frigerio aveva riconosciuto subito in Olindo il suo aggressore. Ma non era vero. Era stato detto per un anno che le confessioni erano precise, concordanti e sovrapponibili, ma non era vero. Era stato detto per un anno che le indagini erano state dettagliatissime, ma non era vero. Era stato detto per un anno che la macchia di DNA sulla Seat della coppia ce l’avevano portata per forza gli imputati, ma non era vero. Era stato detto per un anno che tutte le piste alternative erano state vagliate, ma non era vero nemmeno questo. Era tutto lì, nero su bianco, nei documenti dell’accusa».
– La tua, e la vostra battaglia, in favore di Rosa e Olindo da quanto tempo va avanti?
«È da 17 anni che con i nostri articoli, due libri e un podcast su Youtube, teniamo viva la probabile estraneità di Olindo Romano e Rosa Bazzi dalle accuse di aver ucciso quattro persone la notte del’11 dicembre 2006. Presto uscirà un altro libro che ricostruisce tutta la vicenda. Con Edoardo Montolli, uno dei più coraggiosi giornalisti che conosco, ci siamo avvicinati a questa vicenda dopo le prime indagini e gli arresti, quando altri cronisti sembravano disinteressati a quello che stava succedendo».
– Come parte la vostra inchiesta?
«Guardando i tg abbiamo scoperto che Olindo e Rosa, che tutti davano per colpevoli viste le apparenti prove granitiche (il riconoscimento del testimone oculare, la macchia di sangue, le confessioni dettagliatissime), avevano non solo cambiato legali ma anche strategia, dichiarandosi innocenti e pronti ad affrontare un processo ordinario. Mentre i Ris ammettevano che non c’erano tracce ematiche della coppia sulla scena del delitto né tracce delle vittime a casa loro, dove diranno di essersi cambiati. Troppi fatti che meritavano di essere compresi».
– Felice, qual è il dato più clamoroso di questa inchiesta?
«A metà ottobre 2007 ho beccato in aereo il legale di Rosa e Olindo, Fabio Schembri, mentre da Milano andavo a un matrimonio a Reggio Calabria. Lo conoscevo, non era uno sprovveduto e non avrebbe mai deciso questa linea difensiva se non avesse avuto prove solide. Mi disse “sono innocenti”, come fanno tutti gli avvocati. Edoardo e io abbiamo voluto vedere le carte. C’erano documenti inediti che sgretolavano le tre prove. Le abbiamo pubblicate sul Giornale, ci abbiamo fatto un libro “Il grande abbaglio”. Poi Edoardo è andato avanti con un’altra pubblicazione, l’Enigma di Erba, ha realizzato uno speciale sul settimanale Oggi, ha scoperto che mancavano delle intercettazioni, che c’erano delle piste mai battute come il traffico di droga. Poi sono arrivate Le Iene con Antonino Monteleone, perla rara del giornalismo italiano con cui ho scritto un libro sulla ’ndrangheta nel 2010, che ha raccontato in tv le nostre scoperte».
– Qual è la lezione che si può trarre da questo vostro lavoro giornalistico?
«Quando ho saputo che il sostituto Pg Cuno Tarfusser, magistrato di indiscutibile valore, aveva deciso di chiedere la revisione del processo dopo aver letto le stesse carte che avevamo ritrovato noi e anche il nostro libro, individuando un articolo del Giornale come possibile nuova prova, ho capito che la giustizia italiana aveva gli anticorpi per riformare sé stessa.
Spiace che Tarfusser sia sotto procedimento disciplinare per non aver rispettato un regolamento interno pur di depositare la revisione, sono certo che il Csm lo assolverà».
– Oggi il tuo lavoro, come quello dei colleghi che hanno lavorato con te, diventa un insegnamento fondamentale per centinaia di altri cronisti italiani impegnati su questi fronti: immagino che tu sia fiero di tutto questo?
«Se da un lato posso dirti di esser fiero del mio lavoro, dall’altro però non posso non riconoscere di avere dentro di me qualche rimpianto».
– Posso chiederti quale?
«Io sono uno dei tanti ragazzi di Calabria che, dopo averci provato un po’, se ne sono andati. Ho lavorato a Telereggio dal 1994 al 1997, ho fondato il settimanale Le Calabrie nell’estate del 1998 assieme a un manipolo di colleghi eroi, ho provato a fare un’informazione diversa ma non ce l’ho fatta, e un po’ questa cosa mi pesa».
Insieme a Edoardo Montolli in questa sua intervista a “Giornalisti Italia”, Felice Manti fa espresso riferimento a un altro giornalista calabrese che in tema di giornalismo investigativo è ormai un caposcuola.
È Antonino Monteleone, calabrese di Reggio come Felice Manti, il cui nome – volenti o nolenti – rimarrà per sempre legato ad un’altra inchiesta delicata e difficile di questi anni in Italia, complessa e contrastata come lo è la vicenda della morte di Davide Rossi, il capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, trovato morto a Siena il 6 marzo 2013 sulla strada su cui si affacciava il suo ufficio di Rocca Salimbeni. Prima di approdare alle Iene, nel 2010, Monteleone ha pubblicato con Felice Manti il libro “O Mia bella Madu’ndrina” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta al nord. Hanno vinto il Premio Rosario Livatino 2011.
Alla vigilia della decisione del Csm, che giovedì 8 febbraio si pronuncerà sulla presunta violazione disciplinare del magistrato Cuno Tarfusser, legata alla richiesta di revisione del processo per la strage di Erba, accolta dalla Corte d’Appello di Brescia che ha fissato l’udienza per il 1° marzo, da oggi su Amazon e in tutti gli store, è disponibile in ebook il libro “Olindo e Rosa: Il più atroce errore giudiziario nella storia della Repubblica” (Algama editore, euro 9,99) di Felice Manti ed Edoardo Montolli. La prefazione è di Cuno Tarfusser. (giornalistitalia.it)
Pino Nano
CHI È FELICE MANTI
Nato a Reggio Calabria il 6 luglio 1973, giornalista professionista iscritto all’Ordine della Lombardia dal 12 luglio 2000, Felice Manti è caporedattore centrale del quotidiano Il Giornale, dove ha iniziato nel 1999 dopo aver scalato tutti i gradini fino a quello di inviato.
Dal 1994 al 1997 ha lavorato a Telereggio, la prima e più importante emittente televisiva di Reggio Calabria; nel 1998 ha fondato il settimanale Le Calabrie per poi lasciare la città e trasferirsi a Milano collaborando con Il Giornale, Libero e Il Foglio con articoli e inchieste di cronaca, politica ed economia.
Giornalista d’inchiesta, si occupa prevalentemente di giustizia, etica ed economia. Ha scritto cinque libri: Il grande abbaglio – controinchiesta sulla Strage di Erba (Aliberti 2008); I padroni dell’acqua (FuoridalCoro Il Giornale, 2009); Oh mia bella madu’ndrina (Aliberti 2010) sulla mafia calabrese a Milano vincendo il Premio Livatino nel 2011; Prodotto Interno Sporco (Fuoridalcoro Il Giornale, 2020) sul riciclaggio; L’imprevedibile certezza del Rischio (FuoridalCoro Il Giornale 2021) sulla Scienza del Rischio. (giornalistitalia.it)