PALERMO – Giuseppe Fava muore la sera del 5 gennaio 1984, freddato da cinque colpi di pistola sparati alla nuca mentre si trova ancora a bordo della sua Renault 5, con la quale è andato a prendere la nipote che recita in “Pensaci, Giacomino” al Teatro Verga di Catania.
Un’esecuzione mafiosa in piena regola, ma che nessuno vuole ammettere. Le autorità parlano di delitto passionale prima, di movente economico poi. Lo stesso sindaco di Catania, Angelo Munzone, il giorno del funerale – a cui sono presenti solo il questore, alcuni membri del Pci e il presidente della Regione Santi Nicita – archivia la questione sostenendo che “a Catania la mafia non esiste”.
Viene messa in giro la voce che Fava era un puppo, un omosessuale che adescava ragazzini davanti le scuole. Il punto è che Giuseppe Fava con il suo lavoro dà fastidio alla mafia, ma anche alla politica e all’imprenditoria catanese. E così viene ucciso due volte, prima da Cosa nostra e poi da chi lo calunnia.
Nato il 15 settembre del 1925 a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, a diciotto anni si trasferisce a Catania dove si laurea in giurisprudenza ma sceglie la carriera di giornalista. Nel 1956 viene assunto dall’Espresso Sera dove diventa caporedattore fino al 1980, quando a lui viene preferito un giornalista “più governabile”.
A Roma conduce la trasmissione di Radiorai “Voi e io”, collabora con il Corriere della Sera e con Il Tempo e scrive i suoi romanzi. Negli anni Ottanta torna in Sicilia e a Catania assume la direzione del Giornale del Sud.
Una redazione fatta di giovani cronisti che Fava trasforma in un giornale coraggioso, in prima linea nella denuncia dei traffici illegali di Cosa Nostra e dei legami fra il clan di Nitto Santapaola, politici e imprenditori locali.
La sua esperienza come direttore, però dura poco. La gestione del giornale viene affidata a una nuova cordata di imprenditori e ufficialmente Fava viene licenziato per divergenze sulla linea editoriale.
In realtà, i nuovi editori risulteranno, poi, “amici” stretti dei boss di Cosa Nostra catanesi. Ma il giornalista di Palazzolo Acreide non si dà per vinto. Fonda una cooperativa e nel 1982 esce un nuovo mensile “I Siciliani”, le cui inchieste fanno subito rumore. Il suo articolo “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un’inchiesta sulle attività illecite dei quattro imprenditori catanesi Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro e di altri personaggi tra cui Michele Sindona che Fava collega con il boss Nitto Santapaola, è la goccia che fa traboccare il vaso.
“In quel periodo non c’era una voce a favore di Fava – ricorda il pentito Angelo Siino, definito il ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra e uomo di riferimento dei Santapaola – Veniva denigrato in tutte le maniere, non solo all’interno del fatto mafioso, ma soprattutto della politica”.
E ancora: “Aveva quel suo foglio dove io attingevo delle notizie che non capivo come potesse avere. Evidentemente era un osservatore attento della situazione mafiosa e politico-affaristico-mafiosa della zona. Era molto attento a queste cose e per questo pagò”.
Fra Natale e Capodanno del 1983, Giuseppe Fava riceve in dono dal cavaliere Gaetano Graci, nuovo proprietario del Giornale del Sud che lo aveva licenziato, una quantità enorme di ricotta e una cassa di bottiglie di champagne. Il messaggio mafioso è chiaro: ti ridurremo in poltiglia e brinderemo sulla tua bara.
Nella sua ultima intervista, rilasciata il 28 dicembre 1983 a Enzo Biagi, Fava dirà: “Vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi sono ministri, i mafiosi sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono al vertice della nazione”.
Il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava viene ucciso a Catania. Ci vorranno dieci anni prima che il suo omicidio venga riconosciuto un delitto di mafia. Dieci anni di insulti, di menzogne, di depistaggi, volti ad impedire che Fava potesse diventare un simbolo della lotta alla mafia, a nascondere quegli intrecci fra politica, imprenditoria e mafia catanese che le sue inchieste avevano portato alla luce.
Ironia della sorte sarà proprio un pentito, Maurizio Avola, a far riaprire il caso del giornalista. E’ il 1994 quando Avola parla, si accusa dell’omicidio e racconta delle parole di condanna del boss Nitto Santapaola. “Non può essere stato semplicemente un omicidio di mafia, di questo ne sono certo – dirà Angelo Siino – Perché al di là degli articoli, Fava ai mafiosi faceva danno sì ma non straordinario. Ne faceva molto di più all’imprenditoria coinvolta e ai politici”.
Nel 1998 si conclude a Catania il processo “Orsa Maggiore”: per l’omicidio Fava vengono condannati all’ergastolo il boss Nitto Santapaola come mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammusso come organizzatori e Aldo Ercolano e Maurizio Avola come esecutori.
La Corte d’Appello nel 2001 ha assolto Marcello D’Agata e Francesco Giammusso, mentre la sentenza della Corte di Cassazione nel 2003 ha confermato le condanne all’ergastolo per Santapaola e Ercolano e ha ridotto a 7 anni per patteggiamento la condanna di Maurizio Avola. (Adnkronos)
31 anni fa l’omicidio del giornalista che pagò con la vita la solitaria lotta alla mafia