ROMA – Frasi offensive a sfondo sessuale nei confronti di una collega possono determinare il licenziamento per giusta causa di un dipendente perché non possono essere catalogate come mera “condotta inurbana”. Lo ha stabilito la sezione lavoro della Cassazione con ordinanza 9 marzo 2023 n. 7029 (presidente Adriana Doronzo e relatrice Antonella Pagetta).
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso di un’azienda, ha annullato il verdetto di appello che non aveva ritenuto applicabile la giusta causa di licenziamento di un dipendente prevista dall’art. 2119 del codice civile. Spetterà ora al giudice di secondo grado riesaminare a fondo il caso per una sua nuova valutazione, ma tenendo ben conto che il concetto di giusta causa del licenziamento costituisce una clausola generale che deve essere concretizzata dal giudice, prendendo in considerazione l’esigenza di riservatezza e il rispetto dei dati sensibili della dipendente che era stata gravemente offesa, tra cui quelli relativi all’orientamento sessuale.
Secondo i supremi giudici, in base all’evoluzione della società negli ultimi decenni è ormai innegabile «l’acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona».
Pertanto «l’intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può essere considerata secondo il “modesto” standard della violazione di regole formali di buona educazione utilizzato dal giudice del reclamo, ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2), il riconoscimento della pari dignità sociale, “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo (articolo 4), oggetto di particolare tutela “in tutte le sue forme ed applicazioni” (articolo 35)».
«Tale generale impianto di tutela – si legge ancora nella decisione degli “ermellini” di piazza Cavour – ha trovato puntuale specificazione nell’ordinamento attraverso la previsione di discipline antidiscriminatorie in vario modo intese ad impedire o a reprimere forme di discriminazione legate al sesso; tra queste assume particolare rilievo il Decreto Legislativo n. 198-2006, (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) il cui articolo 26, comma 1, statuisce che “Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”».
L’importante pronuncia conclude così: «Tale previsione risulta specificamente rilevante nel caso in esame in quanto significativa della volontà del legislatore ordinario di garantire una protezione specifica e differenziata – attraverso il meccanismo dell’assimilazione alla fattispecie della discriminazione – alla posizione di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso. Infine, concorre a delineare la scala valoriale di riferimento nella integrazione della norma elastica della “giusta causa di licenziamento” la generale esigenza di riservatezza relativa a dati sensibili riferibili alla persona, tra i quali quello relativo all’orientamento sessuale, posta dal Decreto Legislativo n. 196 del 2003». (giornalsititalia.it)
Pierluigi Roesler Franz
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Ordinanza 9 marzo 2023 n. 7029