ROMA – La data del 25 aprile in Italia è sinonimo di libertà. Quella libertà conquistata con sacrificio e sangue nel corso delle lotte partigiane. Nel 77° anniversario della Liberazione, non dimenticando coloro che hanno permesso a tutte le generazioni che oggi possono esprimere il loro pensiero, leggere fatti e opinioni vivendo sotto l’ala protettiva della democrazia e dello stato di diritto, ricordiamo Massimo Rendina, un partigiano, un giornalista (il nome di battaglia era “Max il giornalista”) che, in una conversazione con la scrittrice Silvia Resta, che è anche inviata per “La7”, aveva analizzato lo stato del giornalismo italiano e “il sogno, in parte naufragato, di chi ha combattuto nella Resistenza per una stampa libera e indipendente”.
Dopo la scomparsa di Rendina, avvenuta nel 2015, da quell’incontro è scaturito un libro, dal titolo “Il giornalista partigiano. Conversazioni sul giornalismo con Massimo Rendina” (edito da All Around), pubblicato nel 2021 nella collana “Giornalisti nella storia” della Fondazione Murialdi.
“Max il giornalista” aveva sottolineato il peso del controllo della politica e dei gruppi economici o comunque di potere e dei correlati conflitti di interesse che hanno impedito (e impediscono tuttora) la reale libertà di stampa. Aveva sintetizzato su questi argomenti dichiarando che “l’informazione soffre di un deficit di libertà”.
Rendina aveva iniziato a lavorare al “Resto del Carlino”, occupandosi di cronaca, al fianco di Enzo Biagi, poi si era arruolato allo scoppio della seconda guerra mondiale e, da sottotenente dei bersaglieri, era stato inviato in Russia. Tornato in Italia, per evitare il fronte divenne condirettore (con Eugenio Facchini) del mensile del Guf (Gruppo Universitario Fascista) “Architrave” pubblicato a Bologna, ma dopo la caduta di Mussolini tornò per un breve periodo al Resto del Carlino e poi si trasferì a Torino.
Nella città piemontese dopo l’8 settembre entrò a far parte della Resistenza nelle “Brigate Garibaldi” e da Capo della Divisione prese parte alla liberazione di Torino. Entrò poi a “L’Unità” e ciò gli permise di curare in seguito la “Settimana Incom” e, terminata la guerra, di entrare in Rai, dove nei primi anni delle trasmissioni televisive venne nominato direttore del Telegiornale, carica dalla quale venne poi sollevato dall’allora presidente del Consiglio Tambroni per divergenze sull’informazione (“un atto di disobbedienza”, precisò con orgoglio Rendina), anche se in seguito, grazie alla stima che per lui avevano Aldo Moro e la sinistra della Dc, venne reintegrato, sia pure con mansioni diverse. Si era anche occupato di cinema, scrivendo sceneggiature assieme al regista e fiorentino Piero Tellini.
È stato molto attivo all’interno dell’Anpi, prima quale presidente del Comitato Provinciale romano di questa Associazione e poi, nel 2011, eletto vice presidente nazionale, nonché membro del Comitato scientifico dell’Istituto Luigi Sturzo per le ricerche storiche sulla Resistenza.
Si è sempre battuto per l’informazione “non condizionata” e questa necessità scaturiva in gran parte dall’importanza, fortemente sentita, delle lotte partigiane, volte anche a modificare l’informazione-propaganda alla quale erano abituati gli italiani, eccezion fatta per i fogli clandestini che riuscivano a circolare durante gli anni del regime fascista.
Lui si era salvato e aveva continuato ad esercitare l’attività giornalistica, ma non aveva mai dimenticato che suo zio, il colonnello Roberto Rendina, era tra coloro che avevano versato il proprio sangue nell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo del ’44. La libertà è sacra, e tale doveva essere per Massimo Rendina, che spesso ha pagato di persona, non solo per la direzione del Telegiornale Rai. Chi informa non può che riflettere oggi sul mestiere di giornalista e su quanto sia costato poter esercitare la libertà di stampa. (giornalistitalia.it)
Letterio Licordari