ROMA – C’è una bella giornata e il procedere lungo una strada affiancata da edifici colorati da cui si affacciano persone sorridenti che incitano a proseguire il cammino, ché la meta con la soddisfazione dei desideri è dietro l’angolo, ma poi si scopre che dietro la prima curva ce n’è un’altra e così via col panorama che si fa sempre più grigio e la gente triste e l’attesa della risoluzione delle cose non arriva mai.
È il tema dell’illusione, del desiderio e dell’attesa così rappresentato allegoricamente in un capitolo de “Il deserto dei Tartari”, ma che è al centro di tutta l’opera di Dino Buzzati, di cui si celebrano ora i 50 anni dalla scomparsa, avvenuta a Milano il 28 gennaio 1972 a 66 anni, essendo nato a San Pellegrino di Belluno il 16 ottobre 1906.
Accanto al Buzzati ottimo giornalista, sì autore di elzeviri, ma soprattutto cronista o inviato di guerra come al seguito del Giro d’Italia (si legga a conferma la ristampa Mondadori di 30 anni di suoi articoli per il Corriere e il Corriere d’Informazione: “La nera”, pp. 640 – 30,00 euro), c’è infatti un Buzzati narratore a un altro livello di scrittura la cui fama è stata sempre legata appunto a romanzo “Il deserto dei tartari” pubblicato nel 1940. È la storia del sottotenente Giovanni Drogo che, nella Fortezza Bastiani, ai confini del paese e dei territori conosciuti, attende una temuta invasione dei tartari. Tutto è continuamente organizzato per essere pronti, ma questi però non arrivano mai, tanto che Drogo ne finirà ammalato e morirà messo da parte da chi ha da fare, perché pare il nemico stia arrivando.
Una metafora esistenziale sul desiderio di dare un senso alla propria vita, che poi non è altro che angosciosa e metafisica attesa della fine. Per questo si è sempre parlato di echi della letteratura mitteleuropea e di derivazione kafkiana, con quella nota fantastica e misteriosa accompagnata da un senso di sgomento crescente e imperscrutabile che sarà costante nelle sue raccolte di racconti, da quelli coevi del romanzo in “I sette messaggeri”, uscito due anni dopo, a “paura della scala” e “Il crollo della Baliverna” poi compresi nei “Sessanta racconti” del 1958, cui andò quell’anno il Premio Strega.
A questo lavoro è da aggiungere il romanzo “Un amore” del 1963, storia dai toni esplicitamente erotici, che trovò estimatori e detrattori sempre comunque sottintendendo che il tema fosse stato uno strumento scelto per far parlare e avere successo con un pubblico più vasto. È l’analisi minuziosa di un’ossessione, la gelosia del protagonista Antonio di perdere una donna, la squillo Laide, che lo ha coinvolto e di cui sente un bisogno assillante e inspiegabile.
Parve a molti allora segnare il passaggio di Buzzati dalla metafisica alla realtà, ma fu Giuliano Gramigna nel saggio che accompagna il Meridiano dedicato allo scrittore a dare una lettura coerente di tutta la sua produzione e vedere nella sfera psicologica di “Un amore” l’eros divenuto attesa e ricerca, il cui desiderio sfugge di continuo alla sua realizzazione, finendo per impedire che “la sua vita venga giustificata”. A vincere sulla realtà è sempre il fantasmatico, il fantastico che è uno dei registri principali di Buzzati, non come manifestarsi di una rottura che magari cambia anche il tono della scrittura, ma rivelandosi nelle pieghe minime della realtà di tutti i giorni, in scarti naturali che manifestano quel che era presente ma appariva invisibile. E in questo senso i racconti sono il risultato alto e coinvolgente per poesia e invenzione. Quella invenzione che lo porterà, nel suo bisogno creativo e di sperimentatore, a unire la sua abilità di disegnatore con la scrittura nella realizzazione di “Poema a fumetti” e “I miracoli di Val Morel”, non meno allegorici e inquietanti proprio nel contrasto tra il senso del magico e del mistero e la realtà quotidiana, senza la determinazione e la durezza, anche stilistica, di Kafka, che fu un’etichetta sempre disturbante e superficiale per Buzzati, legato alla sua dimensione di cronaca coinvolgente con naturalezza anche nel comunicare le sue stranezze e misteri surreali, che sono sempre gli stessi e hanno sempre lo stesso senso esistenziale, di domanda e attesa aperta a una impossibile risposta: «Tutta la realtà, la vita stessa, gli oggetti erano per Buzzati segnali dell’altrove – ha scritto Eugenio Montale – erano una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. E lui poteva tranquillamente ostinarsi a bussare”. (ansa)
Paolo Petroni