ROMA – Mentre tutto il pianeta si rinserrava (e si rinserra tuttora in molti paesi rimasti pandemici) in casa e dentro i vecchi confini nazionali per contrastare il dilagare del micidiale virus, la copertura mediatica globalizzata sull’emergenza Covid accomuna, simpatizza e solidarizza tra loro fino all’ultimo navigatore online. Mai fino ad oggi nessuna altra notizia aveva terremotato da cima a fondo tutto l’universo dell’informazione che ormai ruota e vive intorno al web. Newshole, così gli anglosassoni chiamano il contenitore giornalistico che deve essere riempito ogni giorno fino all’orlo di notiziari, specie su eventi così straordinari dalle dimensioni di una guerra mondiale.
Le cifre di questa rivoluzione informatica, che coinvolge la salute dei popoli, vengono costantemente monitorate e mappate dall’Osservatorio europeo sul giornalismo Ejo, e dai report di Euromood infoweb-Covid con la partecipazione universitaria di Roma 3, e che indaga sui post Facebook di 27 Paesi europei più la Gran Bretagna. L’interessamento raggiunge picchi vertiginosi non a caso in sintonia con la classifica delle Nazioni europee più duramente colpite: Italia, Spagna, Germania, Francia, Regno Unito.
La pandemia ha costituito uno straordinario, imprevisto, potentissimo fattore di accelerazione del paradigma bio mediatico, prefigurando l’alba di una nuova transizione digitale (Censis), purtroppo irta di trappole per l’avvento di piattaforme editoriali multiservizi a sfondo o sottosfondo commerciale a tutto tondo.
A dispetto delle previsioni pessimistiche, per Reporter senza frontiere, il giornalismo garantisce ossigeno alla democrazia e rappresenta il principale vaccino contro la disinformazione, soprattutto contro le fake news. Ha portato un contributo decisivo a smascherare e a scoprire gli altarini dei colossi dei social che mutano spesso look per mantenere onnipotenza e il dominio sulla piazza digitale, su fans e follower, sul pilotaggio dei like col clic, sulla tirannia della simbologia sticker dappertutto come ai tempi dei geroglifici degli antichi egizi; e soprattutto a continuare ad accumulare ricchezze senza pagare le tasse a dispetto del copyright.
È il caso clamoroso di Facebook e del suo padre e fondatore Mark Zuckeberg nel 2004, e che, strada facendo, ha monopolizzato il mercato digitale, assorbendo piattaforma dopo piattaforma di grande impatto, come Instagram, whatsapp, Oculus. Un personaggio leggendario, non ancora quarantenne, che avrebbe sulla coscienza una collezione interminabile di colpe, all’insegna di scandali internazionali, di odio online, di zizzania tra gli Stati, di fake news, di abusi di poteri, di blackout nelle reti, di account fasulli, di violazioni della privacy, di bullismo e chi più ne ha più ne metta. Finora ne è uscito praticamente indenne, ma consapevole di essere nell’occhio del ciclone, si è risolto a cambiare pelle, a mutare look, etichette e simbologia. Con paragoni mitologici, ha fatto come il dio Saturno ha trangugiato i suoi figli e li ha risputati rimessi a nuovo.
Cosi re Zuck ha rimescolato le sue carte telematiche, partorendo “Meta”, dal greco antico un prefisso che indica mutamento, metà/morfosi, decidendo di scommettere su un mondo tutto virtuale magari in 3D.
Intanto, il fenomeno pandemico, indifferente alle sorti dei social, ci sta ancora addosso. Dal febbraio 2020, quando apparve in forma aggressiva il Coronavirus Covid/19, fino all’autunno 2021 sempre contagioso e temibile, ha sterminato nel mondo 5 milioni di persone (oltre 130mila in Italia). Nello scorso ventesimo secolo, si diffusero tre gravi pandemie, la Spagnola nel 1918 che uccise 50 milioni di persone, l’Asiatica del 1957 e la Hong Kong del 1968 che causarono migliaia di morti. Allora le informazioni venivano veicolate da numeri ridotti di strumenti di comunicazione oggi moltiplicatesi in forma esponenziale anche a rischio di creare la confusione delle opinioni contrastanti.
La cappa avvolgente del virus micidiale, gli eroismi del fronte sanitario, le lunghe quarantene, la lotta per la sopravvivenza e per il pane quotidiano, la difesa del posto di lavoro, la convivenza con la diffusione del contagio, nuove forme di solidarietà e socializzazione a distanza hanno rimesso al centro dei giochi il giornalismo di qualità, la cronaca dei fatti autentici che si consumano sulla pelle della gente.
Con un colpo di spugna è stato ridimensionato il peggio dell’ingombro del gossip e del pettegolezzo della politica che ci ha perseguitato per decenni fino alla nausea. Alla ribalta racconti di storie vissute fra la vita e la morte, il calvario dei medici caduti nelle trincee degli ospedali, il dramma di un’economia in ginocchio e della disoccupazione, il pronto soccorso elemosina delle burocrazie pubbliche, la coda nei supermercati e nelle farmacie, l’isolamento degli anziani, il regime semi poliziesco per obbligarci a restare a casa, per circolare di meno, dal lockdown al green pass.
Tutte queste sofferenze, angosce, pene, tribolazioni quotidiane, testimonia, documenta diffonde il cronista che metro dopo metro sta riconquistando, anche a rischio della propria salute e delle intimidazioni mafiose, il territorio cittadino e periferico troppo spesso ignorato e abbandonato di fronte alle seduzioni del virtuale e del fasullo della globalizzazione. Si spiega, si descrive e si racconta l’emergenza e la convalescenza toccando le corde più sensibili e profonde delle persone.
Il lockdown, le quarantene, il lungo blackout pandemico hanno contribuito a dare un inaspettato impulso alle sorti multimediali dei mass-media grandi e piccoli, fino a poco tempo prima in caduta libera, prospettando una ripresa ben augurante. Finalmente, dopo tante resistenze, dubbi e riserve, il rapporto fra carta stampata e online comincia, sia pure faticosamente, a marciare.
Secondo i risultati dell’indagine Audipress diffusa il 30 settembre 2021, “32,4 milioni di italiani leggono almeno uno dei principali titoli stampa su carta o digitale replicata ogni mese: una platea importante per dimensioni e distribuzione sociodemografica, che sceglie la comunicazione certificata e prodotta dai brand editoriali, in un contesto caratterizzato, da una complementarità di mezzi di comunicazione e pluralità di esposizione”.
Il giornalismo di qualità si sforza di riprendere quota grazie a tanti colleghi tenaci e irriducibili nonostante le crisi, le minacce di licenziamento e le avversità. Si erge a difesa di una umanità fragile e sofferente e sfida la stanza dei bottoni troppo reticente. Conduce ovunque una dura battaglia contro le fake news e le fandonie che assaltano e infettano a livello virale diffondendo rabbia, ribellione e panico, come quelli sul no vax, sul no green pass, altrimenti incontrollabili.
Finora soltanto a parole, il Governo italiano ha riconosciuto che “l’informazione è un bene pubblico essenziale” al quale va garantito un futuro stabile. E ancora i giornali “sono come i farmaci, un antidoto cruciale contro il virus, assolvendo un servizio pubblico essenziale”. Il Papa ha dedicato una preghiera speciale a tutti “coloro che lavorano nei media”. La Conferenza episcopale italiana considera le notizie “un pane necessario alla gente”.
Questa nuova consapevolezza presuppone il rilancio del giornalismo e della sua funzione indispensabile di mediazione e di servizio di pubblica utilità, praticamente alla pari dei riconoscimenti oggi esclusività della Rai, con atti e investimenti tangibili a sostegno dell’editoria orfana della pubblicità su larga scala chissà per quanto tempo ancora, ed esposta alla pirateria del diritto d’autore professionale e della diffusione illegale di copie dei giornali. È tempo di passare dalle parole ai fatti nell’interesse dei cittadini in cerca di certezze e di fiducia per l’oggi e il domani. Ed è anche tempo di garantire dignità economica e tutele alle nuove leve di giornalismo e alle loro avanguardie che testimoniano sul campo il loro valore.
Quando ci risveglieremo definitivamente dall’incubo virale nulla sarà come prima anche per il giornalismo che ha operato e continua a operare nelle trincee dell’epidemia a rischio della propria incolumità e a costi di sacrifici e di perdite di valorosi, e senza la difesa di una profilassi di categoria.
Ma ancor prima degli sconvolgimenti di questi anni, quasi tutto era già cambiato nel mondo dell’informazione rivoluzionato dall’era del digitale e terremotato nei rapporti di lavoro. Lo sanno sulla loro pelle i moltissimi giornalisti precari che hanno chiesto il pronto soccorso del bonus per gli autonomi per sopravvivere e che rappresentano un mondo di decine di migliaia di addetti ai lavori (33.652 quasi tutti pubblicisti).
Un mondo di cronici mal pagati e mal tutelati, da tempo pionieri di fatto dello Smart working, evoluzione del telavoro, che, sotto la pressione dell’emergenza “tutti a casa”, si è espanso in forma esponenziale, creando una nuova dimensione operativa nelle imprese, nel pubblico e nel privato. In questo periodo si sono moltiplicate le teleconferenze stampa, le video interviste, lo Zoom meeting di lavoro, il cosiddetto dialogo remoto, insomma si è diffuso il mondo online nel giornalismo e nel rapporto con le fonti di informazione. Non solo l’intero universo dei precari, ma anche buona parte della rete dei corrispondenti, scomparse le redazioni periferiche, agiscono ormai “a distanza”, i più integrati dagli articoli 2 e 12 del contratto giornalistico. Nella buona sostanza, realizzano le loro cronache e i loro notiziari con il modello dello Smart working che, per la prima volta e in circostanze eccezionali, ha coinvolto i professionisti delle redazioni costretti a lavorare a casa per non contagiarsi.
Ma le redazioni non sono state mai chiuse o smantellate, sono restate e restano il motore della produzione, nell’ora critica presidiate dai vertici organizzativi, dalle collaudate vecchie guardie che hanno tenuto e tengono un ponte verso il ritorno alla completa normalità. In molti sono preoccupati che lo Smart working possa provocare il declino dell’informazione, svuotare le redazioni, polverizzare la professione.
Allo stato dei fatti, non è possibile che accada nonostante la minacciata raffica di nuovi prepensionamenti e di selvagge mutazioni aziendali sotto i colpi di vere o presunte crisi editoriali Colpire il consolidato sistema redazionale significherebbe stracciare definitamente il contratto di lavoro giornalistico già mortificato abbastanza. Il sindacato non lo può permettere e gli editori lo sanno bene. Purtroppo, anche da parte dei responsabili pubblici si mettono i bastoni fra le ruote per mantenere sotto scacco il banco della comunicazione.
Lo Smart working, se usato intelligentemente nel rispetto della “legge sul lavoro agile e flessibile”, potrebbe normare l’attuale telavoro e diventare uno strumento efficace nel frenare e arginare il fenomeno dilagante del precariato nel mondo dell’informazione. Il freelance non solo non è mai in vacanza, ma è investito di maggiori responsabilità lavorando in autonomia lontano dalle stanze redazionali. Ha diritto al rispetto e a un più equo trattamento economico.
Come se non bastassero le ansie e le apprensioni delle popolazioni in all’erta quotidiana, la disinformazione generata da mestatori di zizzania e da truffatori in cerca di facile visibilità ha messo il carico da 11 nei social e nelle chat per provocare allarmismi, rivolte di piazza con una serie di bufale e di fake news su fantomatiche terapie, cure miracolose, monete infette, screening a domicilio di imbroglioni, complotti di untori, armi batteriologiche. Il Governo, il ministero della sanità, la Protezione civile si affannano a smentire, a mettere in guardia contro questa piaga terroristica e squadrista.
Addirittura a palazzo Chigi si intende costituire una task force contro le fake news rafforzando il ruolo della polizia postale per stroncare la catena di fonti tossiche che avvelenano i social. Anche le organizzazioni dei giornalisti si stanno attrezzando con Osservatori di denuncia e di controllo. L’informazione influenza la nostra vita e la nostra sicurezza, e non può e non dovrebbe essere manipolata a strumentali scopi di contropotere.
Non saranno le task force e gli osservatorii a sostenere la guerra contro la micidiale opera di disinformazione, ma i cronisti, i freelance, quanti sfidano le difficoltà del momento nello scendere in strada tra la gente e nell’affrontare con coraggio e in presa diretta le fonti sempre riluttanti.
Il boom della disinformazione sulla nostra pelle in questi assillanti momenti sanitari ed economici potrebbe aprire finalmente tanti occhi e far passare la sbornia della supremazia degli algoritmi sulla professionalità dei giornalisti, recuperare il terreno di affidabilità e di indipendenza perduti sotto il dominio e l’invadente prepotenza della rete e del potere dei suoi mallevadori, riallacciare le file della cronaca con i fatti vagliati e valutati di prima mano, garantire dignità economica e tutele alle nuove leve di giornalisti che testimoniano sul campo il loro valore.
Si offre la rara occasione di riscattare l’informazione di qualità, e restituire autentiche certezze e fiduce all’opinione pubblica. Persino nel Palazzo, messo alle strette da una morsa senza precedenti di difficoltà di rendersi affidabile e credibile stanno riscoprendo, anche se di malavoglia, il giornalismo e la sua funzione di mediazione e di servizio di pubblica utilità che hanno bisogno di essere riconosciuti con il ritorno alla normalità. (giornalistitalia.it)
Romano Bartoloni
(prefazione all’eBook “Il Giornalismo vaccino contro le fake news”)
L’unica soluzione è far rinascere i quotidiani, quelli degli editori puri, quelli che si mantengono solo con le copie vendute ai loro lettori. Proibendo le commistioni con altri interessi.