Gli sconquassi causati dalla legge del 1981 e il “buco di cassa” di 650mila euro al giorno

Inpgi e 416, la profezia di Franz … 27 anni fa

Pierluigi Franz

ROMA – È passata quasi inosservata nell’estate scorsa, ed esattamente il 5 agosto, la ricorrenza del 40° anniversario della legge n. 416 del 1981. Una normativa, purtroppo, rimasta in vigore senza i necessari e tempestivi correttivi e modifiche, ma soprattutto senza i dovuti e sostanziosi ristori da parte dello Stato in favore dell’Inpgi 1 che ha assicurato da quasi un secolo, sia quando era un ente pubblico, sia da quando nel 1995 è diventato un ente previdenziale privatizzato sotto forma di Fondazione, rimasta intitolata al grande giornalista e uomo politico napoletano Giovanni Amendola.

Sergio Mattarella

Norma benedetta dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che continuerà ad assicurare, almeno fino al 30 giugno prossimo prima di passare all’Inps (come prevede l’art. 28 della legge finanziaria Draghi per il 2022) la pensione e l’assistenza dei giornalisti lavoratori subordinati. Da ricordare che Mattarella – che ringrazio sentitamente – è stato sollecitato, oltre che da autorevoli giornalisti, da un accorato appello lanciato da 3 mila colleghi di tutta Italia, raccolte dal Comitato “Salviamo la previdenza dei giornalisti”, promosso da “Puntoeacapo” assieme al movimento “Giornalisti No Prelievo” che fa capo al collega torinese Salvatore Rotondo).
Fra tutte le Casse previdenziali privatizzate, compreso l’Inpgi 2, che assicura la previdenza e l’assistenza dei giornalisti lavoratori autonomi, l’Inpgi 1 è oggi in Italia l’unica Cassa sostitutiva dell’Inps in base alla legge Rubinacci n. 1564 del 20 dicembre 1951, rimasta per 70 anni ancora in vigore anche dopo la trasformazione dell’ente in Fondazione privata.

Mario Draghi

Dal 1° gennaio 2011 lo sbilancio tra le entrate e le uscite per pensioni Inpgi 1, purtroppo, raggiungerà al 31 dicembre 2021 circa un miliardo 400 milioni di euro in appena 11 anni. La riserva tecnica Inpgi 1 scenderà, così, a circa 1,7 annualità contro le 5 annualità previste dal decreto legislativo n. 509 del 1994. Questa enorme differenza tra l’entrata per contributi e la spesa per pensioni Inpgi 1, che si è attestata in più di 200 milioni di euro l’anno, sta attualmente determinando un “buco” di cassa di oltre 650 mila euro al giorno, una voragine.
Di fronte di queste cifre astronomiche “in rosso” il Governo Draghi, riprendendo le sollecitazioni del Quirinale sulla garanzia pubblica delle pensioni dei giornalisti, come per tutti gli altri cittadini e come prevede l’art. 38 della Costituzione, ha inserito nella prossima legge finanziaria che dovrà essere approvata dal Parlamento prima di Capodanno una norma, l’articolo 28, che prevede dal 1° luglio 2022 il passaggio all’Inpgi 1 all’Inps (passaggio definito negli ambienti giornalistici “la disfatta di Caporetto per Controcorrente”) garantendo il puntuale pagamento delle pensioni in essere e di quelle future Inpgi 1 senza i paventati tagli di un terzo delle pensioni dei colleghi, né il paventato ricalcolo dei contributi degli attivi e senza neppure il taglio dell’1% per 5 anni delle pensioni e degli stipendi approvato nei mesi scorsi dalla maggioranza del Consiglio di amministrazione (hanno votato contro i consiglieri di opposizione Carlo Parisi, Elena Polidori e Daniela Stigliano) e rimasto “congelato” al ministero del Lavoro che l’aveva sollecitato.

La sede Inpgi in via Nizza 35 a Roma

In pratica, la nuova norma non tocca le pensioni, né i contributi già acquisiti, garantendo un principio di assoluta equità tra generazioni all’interno di un gruppo di lavoratori dipendenti. Insomma, è un’operazione che non discrimina nessuno all’interno di una categoria di lavoratori subordinati, come i giornalisti iscritti all’Inpgi 1. Di conseguenza, se questa norma resterà tale, nessuno perderà nulla di quanto acquisito, mentre resterà in piedi solo come ente privatizzato l’Inpgi 2 per i giornalisti lavoratori autonomi.
In conclusione, se alle Camere – come ci si augura – non ci saranno franchi tiratori o, peggio, colpi di mano, l’art. 28 – così com’è – dà assoluta tranquillità a 10 mila giornalisti pensionati e alle loro famiglie e a tutti i giornalisti in attività di servizio iscritti all’Inpgi 1 o all’Inpgi 2, nonché ai 185 dipendenti dell’ente, di cui 100 passeranno all’Inps entro il 2022, mentre i restanti proseguiranno il lavoro all’Inpgi 2.
Ma prima di questo “miracoloso” art. 28 cosa ha fatto in concreto lo Stato in 70 anni a favore dell’Inpgi 1 per assolvere a quanto gli competeva come unico ente previdenziale sostitutivo dell’Inps? Molto poco. Le Camere hanno varato solo due “leggine”, nel gennaio 2009, che hanno permesso all’Inpgi 1 di disporre complessivamente di 20 milioni di euro l’anno per far fronte all’onere dei costosissimi prepensionamenti, ma con durata fino alla data di maturazione dell’età per il pensionamento di vecchiaia di un giornalista, e solo per il 2021 lo Stato si è accollato l’onere della cassintegrazione e di altri ammortizzatori sociali. Per il resto nulla.

Andrea Martella

Anzi, con un’altra norma di legge, varata durante il Governo Conte 2, si è addirittura dato il via libera ad ulteriori centinaia di prepensionamenti di giornalisti dipendenti di aziende in crisi (140 nel 2020 e 190 nel 2021) che, in buona parte, sono finiti a carico dell’Inpgi 1 anche perché per la prima volta, grazie all’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Andrea Martella, definito (e meno male!) un amico della Fnsi, si é addirittura prevista l’assunzione di non giornalisti che versano all’Inps senza, però, alcuno stanziamento di adeguati indennizzi per l’Inpgi 1, ente che è tenuto a pagare le pensioni, ma che non può, né poteva certamente stampare denaro per pagarle.
In precedenza, nel 2008, l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, emanò un decreto rivelatosi davvero disastroso per le casse dell’Inpgi 1 (come a suo tempo da me denunciato) perché di fatto consentiva a tutte le aziende editoriali, comprese quelle quotate in borsa o che non erano affatto in crisi, di poter richiedere ugualmente i benefici della legge 416 ora per allora, cioè ipotizzando fantasiose crisi future non supportate da nulla. Grazie a questo assurdo decreto si è, poi, registrata una vera corsa ai prepensionamenti con conseguente graduale, ma inesorabile svuotamento dalle redazioni di agenzie di stampa, quotidiani e periodici. Ciò, a cascata, ha mandato contestualmente in tilt anche il Fondo Ex Fissa Fieg-Fnsi, che ha accumulato un debito pesantissimo di circa 140 milioni di euro (di cui 50/60 milioni di euro da versare all’Erario come imposta Irpef) nei confronti di ben 2.400 giornalisti pensionati o prepensionati di tutta Italia, il primo dei quali è in attesa del saldo da più di 11 anni, di fatto abbandonati dalla Fnsi al loro destino, nonostante reclamassero somme dovute proprio in applicazione di accordi sottoscritti dalla Fnsi con la Fieg!
Insomma, la politica per molti decenni è stata inerte o quasi e comunque è rimasta sostanzialmente alla finestra. In pratica si è limitata a guardare, anziché intervenire per ristorare l’Inpgi 1 dell’intero onere di tutti gli ammortizzatori sociali, prepensionamenti compresi, così come lo Stato avrebbe fatto e sta tuttora facendo con l’Inps, di cui l’Inpgi 1 è l’unico ente sostitutivo.
Tra le principali cause dell’enorme disavanzo dell’Inpgi 1 va, appunto, annoverata la legge sull’editoria n. 416 del 1981 che é stata, finora, abilmente sfruttata per 40 anni dagli editori come un bancomat nei confronti dell’Inpgi 1. Ora alcuni leader sindacali dei giornalisti, dimenticandosi, però, di fare doverosamente mea culpa, hanno cambiato parere, riconoscendo – ma ormai fuori tempo massimo – la necessità di un’effettiva riforma di questa legge.
Rivendico, invece, di essere stato in tempi non sospetti il primo – vox clamantis in deserto – a lanciare il grido d’allarme al Governo e alle forze politiche quando ricoprivo la carica di Presidente dell’Associazione Stampa Romana e di componente del Comitato Esecutivo dell’Inpgi, pur essendo quella ancora un’epoca di “vacche grasse” all’Inpgi 1.
Questo mio vecchio intervento dimostra documenti alla mano, come si può leggere nell’accluso ampio articolo pubblicato sul mensile “Stampa Romana” dei mesi di giugno e luglio 1994 n. 6-7 anno XXX, che con larghissimo anticipo avevo visto giusto.  E nessuno può smentirmi perché “carta canta”.
Il 21 giugno 1994 (cioé 9 giorni prima del decreto legislativo n. 509 del 30 giugno 1994 del Governo Berlusconi che privatizzò l’Inpgi) si svolse nel cinema Capranichetta di Roma una grande manifestazione sull’emergenza occupazione. Tra i presenti vi erano il presidente della Fnsi, Vittorio Roidi, il vicesegretario della Fnsi Gabriele Cescutti (poi divenuto presidente dell’Inpgi) e il segretario dell’Associazione Stampa Romana, Paolo Serventi Longhi (poi eletto segretario della Fnsi e di diritto, in quanto tale, consigliere di amministrazione dell’Inpgi e successivamente vice presidente vicario dell’Istituto).
Mai prima di allora si era avuta una così grave crisi dell’editoria nei quotidiani, nei periodici e nelle emittenti radio-tv. Difatti nel 1993 si era registrato il più alto numero di giornalisti disoccupati o in cassaintegrazione: addirittura 800 colleghi con un costo complessivo record per l’Inpgi di 10 miliardi di lire (esattamente il doppio rispetto al 1992).
In quell’occasione affermai che: «l’Inpgi, a costo zero per lo Stato, funge da ammortizzatore sociale per la categoria soprattutto in questo momento occupazionale. E svolge anche un ruolo di primo piano per quanto riguarda i prepensionamenti di giornalisti di aziende in crisi o in ristrutturazione in base alla legge sull’editoria».
E sottolineai: «questa legge (la n. 416 del 5 agosto 1981) dev’essere al più presto modificata dal Parlamento perché é una vera e propria mina vagante o, meglio, una cambiale in bianco sui bilanci dell’Inpgi almeno fino al 2025, come ha più volte evidenziato – anche se i ripetuti richiami sono rimasti sinora lettera morta – la maggioranza del Consiglio di amministrazione con in testa il suo presidente Orlando Scarlata. Motivo: l’applicazione pratica della 416 ha oggi letteralmente stravolto le finalità sociali per le quali era stata varata. Obiettivo della legge sull’editoria era, infatti, quello di salvaguardare il diritto alla pensione dei giornalisti dipendenti da aziende editoriali fallite o, comunque, in grave crisi economico-finanziaria, mentre la 416 é, invece, diventata uno strumento con cui gli editori possono a loro piacimento mandare anticipatamente a casa giornalisti ritenuti “scomodi” o, comunque, diventati troppo onerosi. Paradossalmente la 416 contribuisce a far riequilibrare i bilanci aziendali scaricando a circuito chiuso all’Inpgi cioè sull’intera categoria dei giornalisti, i pesantissimi costi dei prepensionamenti».
Ricordai, inoltre, che «le imprese editoriali risparmiano circa 80 miliardi di lire l’anno grazie alla fiscalizzazione impropria degli oneri sociali. L’Inpgi incassa, infatti, un contributo assegni familiari di appena o 0,05% contro il 6,20% dovuto all’Inps dalle imprese di altri settori produttivi».
Precisai che «la revisione della legge 416 da parte delle Camere é assolutamente indilazionabile soprattutto alla vigilia della privatizzazione dell’ente che – salvo rinvii dell’ultim’ora – il Governo dovrà attuare entro pochi giorni in esecuzione della “finanziaria” del ’94. Ma privatizzare l’Inpgi senza contemporaneamente modificare l’attuale normativa sui prepensionamenti rischierebbe di mettere in serio pericolo la stessa sopravvivenza dell’ente previdenziale e quindi il puntuale pagamento dei vitalizi a migliaia di giornalisti pensionati, i quali non avrebbero più barriere di protezione, né le garanzie attualmente previste dall’articolo 38 della Costituzione. E rischierebbero di non ottenere neppure il riallineamento degli stessi vitalizi erosi annualmente dall’inflazione monetaria».

La Camera dei deputati

Aggiunsi ancora: «Un grido di allarme che, come presidente dell’Associazione Stampa Romana e componente del Comitato Esecutivo dell’Inpgi, sento il dovere di lanciare al governo e alle forze politiche, affinché questo delicato problema venga finalmente riesaminato al più presto dal Parlamento. Ritengo, infatti, che un moderno sindacato al completo servizio dei colleghi debba prevenire con largo anticipo quegli eventi che potrebbero poi riflettersi negativamente sul futuro della categoria e quindi intaccare l’autonomia dei giornalisti cui é strettamente connessa la libertà di stampa garantita dall’articolo 21 della Costituzione (norma questa che, a mio parere, dovrebbe essere ampliata dalle Camere fino a ricomprendervi il diritto del cittadino ad essere correttamente informato)».
Ed affermai di essere perfettamente a conoscenza che «all’interno della Fnsi e del sindacato dei giornalisti romani c’é chi la pensa in modo diverso e ne rispetto le opinioni, perché dal libero confronto delle idee si può, comunque, trovare in comune accordo la migliore soluzione del problema. Anche la Fieg é, naturalmente, di parere opposto al mio anche se é favorevole alla modifica della legge sull’editoria, limitatamente, però, alle norme che affidano in esclusiva agli edicolanti la vendita dei giornali. Ma, purtroppo, di fronte a dati e a cifre allarmanti e alle conseguenti non ottimistiche previsioni attuariali sui futuri bilanci dell’Inpgi, non posso che ribadire la necessità dell’assoluta revisione della legge 416, affinché venga riportata a criteri di assoluta equità, opportunità e legittimità costituzionale. Il costo dei prepensionamenti, infatti si riversa interamente sulle casse dell’Inpgi con danni irreversibili: in media addirittura un miliardo di lire per ogni collega che ottiene il prepensionamento anticipato, tenendo conto che al regalo di annualità di contributi figurativi va sommato il corrispondente minor introito di contributi obbligatori per la durata di molti anni».
Infine, detti anche conto dell’assurdità dello scivolo contributivo da parte dell’Inpgi che, nel 1994, era di ben 15 anni in favore dei giornalisti prepensionati e della grave discriminazione ai danni delle donne giornaliste che all’epoca restavano ingiustificatamente e irrazionalmente escluse dagli scivoli previsti dal prepensionamento proprio perché esso scattava a 55 anni di età simultaneamente con la loro età pensionabile. (giornalistitalia.it)

Pierluigi Roesler Franz

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