ROMA – Un amministratore delegato interno, che non dovrà apprendere in corsa tutti i tasselli del puzzle Rai, o uno esterno, più libero da legami consolidati e, quindi, di aprire un nuovo corso, a partire dallo stato di salute economica dell’Azienda? La scelta principale da compiere al momento sembra essere questa a differenza di quando, qualche settimana fa, fonti qualificate raccontavano che la scelta di un esterno sembrava scontata, così come l’assenza di una trattativa sul ticket.
Insomma, oggi la partita sembra essere davvero tutta aperta ed è difficile immaginare che ci possa essere una divisione netta nelle scelte, come alcuni raccontano, e cioè che Draghi fa quel che vuole sull’amministratore delegato, mentre i partiti decidono il presidente tanto più che poi, senza la maggioranza dei due terzi nella Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, non c’è proprio un presidente. Difficile, quindi, immaginare, che non ci sarà un qualche accordo complessivo visto che, banalmente, se Draghi dovesse scegliere una donna come amministratore delegato, i partiti sarebbero orientati a scegliere un uomo per la presidenza e viceversa.
La trattativa, insomma, sembra una strada obbligata, ma il punto è: condurrà al pluralismo o alla lottizzazione? Servirà a dare alla Rai le ali di cui ha bisogno per voltare ad alta quota fra gli Over The Top o rischierà, come altre volte, di mettere il piombo sulle sue ali?
Restiamo a terra per il momento. E parliamo di priorità concrete per la Rai. Quali sono? Sicuramente il riequilibrio dei conti e persino, osando, un piccolo tesoretto per fare investimenti, cosa cruciale per un’Azienda editoriale che non può prescindere dalla corsa al progresso tecnologico e dalla competizione sempre più serrata con gli Ott.
Questo, dunque, è certo e, a quanto pare, sembra essere il pensiero numero 1 del premier sulla Rai, ma ci sono molte altre priorità. E conversando con chi lavora da tanto tempo nella più grande azienda culturale italiana – come si continua a ripetere a volte per valorizzarla a volte per sottolineare l’incapacità di sostenere un simile onore – i conti sono sì una assoluta priorità, ma facilmente risolvibile se tutto il canone pagato dai cittadini tornasse in casa Rai.
Un capitolo, quello del canone, che da tempo è, però, diviso perché sebbene la riscossione sia stata messa al sicuro con l’inserimento nella bolletta elettrica, continua a far discutere la deviazione di una parte del gettito da canone fuori dalle casse Rai e, a monte, l’uso secondo alcuni non abbastanza efficiente che il Servizio Pubblico fa di questi soldi. Ed ecco aprirsi pian piano, tra una chiacchierata e l’altra nel palazzo, i cahier de doléance.
Perché, si chiede qualche veterano che punta ad una Rai fiera, negli ultimi tre anni è mancato un audit interno che individuasse le sacche di inefficienza, gli sperperi, le storture nelle catene di comando? Avrebbe aiutato, rimarca. Perché non si è portato alla luce, una volta per tutte, l’alto tasso di competizione interna che rallenta in modo serio i processi produttivi, taglia le gambe a chi ha tante idee ma poche protezioni politiche, e rende imbalsamata la comunicazione della Rai verso l’esterno? Perché non si è intervenuti sulla esasperante disparità economica che vige in Azienda? Anche questo sarebbe stato utile a fare della Rai un’azienda editoriale più efficiente, agile, leggera, fanno notare. E poi ancora. Prima del rapporto con la politica che, stando alle osservazioni raccolte, a volte è solo complice e non la sola responsabile, ci sono altre insensatezze elencabili in un baleno da chi conosce bene l’Azienda.
La prima: budget molto alti per le tre reti generaliste (intorno ai 70 milioni di media fra Rai1, Rai2, Rai3), grande discrezionalità e, di contro, scarse internalizzazioni, poca innovazione e bassa propensione a tenere un po’ a dieta le major e scegliere anche piccole società di produzione, sebbene dare loro maggiore spazio aprirebbe una sana competizione a vantaggio di costi e innovazione (di nuovo si batte su questo tasto) ed inoltre consentirebbe di rispettare una delle indicazioni del contratto di servizio.
La seconda: trasparenza ancora troppo bassa non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno. E si potrebbe proseguire ancora, perché non mancano osservazioni approfondite da parte di chi vive e osserva da dentro la vita dell’Azienda e che ora trepida nell’attesa di capire se l’ad sarà un esterno, se sarà un esterno tutto numeri e tabelle che, quindi, delegherà la parte editoriale al direttore generale (introdotto nuovamente dall’attuale ad Salini) o se sarà, invece, un interno come l’attuale direttore Distribuzione Marcello Ciannamea (per il quale sembra battere il cuore dei leghisti) o come l’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco (gradito ai più).
O, ancora, come il Chief Technology Officer Stefano Ciccotti (ex ad e presidente di Rai Way) che non è considerato vicino a nessun partito, ma che è ritenuto un profondo conoscitore della macchina aziendale oltre che un vero esperto di tecnologie e che saprebbe, quindi, affrontare bene anche la partita dell’infrastruttura tecnologica fondamentale nei prossimi tre anni.
Non manca comunque chi, di contro, lo ritiene carente sulla parte editoriale. In ogni caso di quale partita tecnologica si tratta? Parola chiave: refarming, processo ancora da completare che coinvolge anche le relazioni tra la Rai, il Mise (che coordina la road map del refarming) e Confindustria Radio Tv (di cui fanno parte tutte le tv, anche quelle private). Subito una prima considerazione: con la cessione della banda 700 MHz, a partire dal 30 giugno 2022, il servizio televisivo si ritroverà con 12 canali in meno sui 40 attualmente in uso. In sostanza per mantenere i canali che occupano ora la banda 700 (e che dovranno lasciarla definitivamente a vantaggio delle compagnie telefoniche), bisognerà spostarli in un altro spazio di frequenza (più bassa) attraverso nuove tecnologie di compressione e codifica, mantenendo il più possibile inalterata la qualità e ospitando anche canali ultra Hd (4k) e cioè in una definizione più che altissima.
Sì, ma in cosa si traduce tutto per i cittadini? Nella necessità di comprare un decoder o di rinnovare il parco dei televisori acquistando quelli Dvb-T2 (digitale terrestre di seconda generazione). Cambiamento attualmente piuttosto in salita sia per la pandemia sia per la stasi del mercato elettronico e la crisi economica, non alleggerita per i singoli neppure dal bonus-tv che non risulta particolarmente d’aiuto se si tiene conto del fatto che spesso nelle case degli italiani ci sono più televisori e il bonus riguarda un singolo decoder. E i dati di riferimento più recenti pubblicati dal Mise nel rapporto di verifica sulla diffusione degli apparati di ricezione, lo confermano: a febbraio 2020 solo il 42,4 % delle famiglie risulta essere dotato di un televisore Dvb-T2, mentre le previsioni al settembre 2021 stimano che circa 6 milioni di famiglie, corrispondenti al 27,1% del totale, non avranno ancora a disposizione un ricevitore Dvb-T2.
In questo percorso non bisogna perdere d’occhio il tempo. Due, in particolare, sono le date clou per il prossimo Cda Rai: il 1° settembre 2021, quando avverrà il passaggio dal vecchio sistema Dvbt-Mpeg2 al sistema Dvbt-Mpeg4 con il rischio che, sebbene la Rai sia pronta, centinaia di migliaia di utenti o intere aree nel Paese potrebbero non ricevere il segnale Rai, non avendo potuto rinnovare il parco tv; e il 30° giugno 2022 quando il processo di refarming si completerà con il cambio tecnologico per inserire più canali e di qualità in uno spazio frequenziale inferiore attraverso l’introduzione della codifica Dvb t2 Hevc (più efficiente della precedente Mpeg4), a sempre con il rischio di una notevole percentuale di utenti ancora senza un televisore adeguato.
La partita tecnologica dei prossimi tre anni ha poi altri significativi capitoli: le torri e non solo. Attualmente la Rai usa le torri per la tv lineare e la broadband (rete web) per RaiPlay la quale utilizza una piattaforma di server (Cdn, Content Delivery Network) distribuita su tutto il territorio nazionale.
Si tratta di una piattaforma che aiuta a minimizzare il ritardo nel caricamento dei contenuti delle pagine web riducendo la distanza fisica tra il server e l’utente. In tal modo, in sostanza, gli utenti in tutto il mondo possono visualizzare gli stessi contenuti di alta qualità senza rallentare i tempi di caricamento. Qual è, però, il problema? Che la Rai non ha una sua Cdn e deve noleggiare il servizio da terzi, spendendo diversi milioni l’anno. Milioni che con tutta probabilità aumenteranno perché i costi di distribuzione progressivamente saliranno, visto che la domanda di dati da far viaggiare sulla rete sarà sempre maggiore. Ed ecco il punto. La distribuzione dei contenuti si sta spostando sempre più su piattaforma web e la Rai deve, quindi, decidere se andare subito al cuore del problema, affrontando la trasformazione del mondo via etere e spostandosi, dunque, velocemente sulla distribuzione broadband (rete), anche in vista dello spostamento dell’utilizzo dei device, da fissi con sintonizzatori a portatili con abbonamenti internet. A quel punto resterebbe poi da capire se la Rai vorrà continuare a investire sulle torri o, invece, dirottare gli investimenti verso la Cdn proprietaria. Ed ancora se sta già studiando, naturalmente in un confronto con le istituzioni, un canone la cui riscossione (considerato che la fruizione dei contenuti si sposta sul web) non sarà più fondata sul possesso delle tv, ma su altro. A mettere il sale sulla coda del Servizio Pubblico c’è poi un piccolo ma significativo dettaglio di cui sono a conoscenza alcuni esperti in Rai: nel documento europeo “European barriers in retail energy markets” (studio commissionato dalla Ue per i pnrr dei singoli Stati) compare a pagina 44, il capitoletto “regulatory disincentivation” nel quale, fra la pratiche da scoraggiare, c’è l’obbligo di riscuotere per conto terzi tariffe estranee all’energia. Ed è indubitabile che il canone, attualmente in bolletta, sia “estraneo” all’energia. Resterà il capitolo di un documento? (adnkronos)