Era il 12 febbraio 1931 quando Guglielmo Marconi chiamò al microfono Pio XI

Radio Vaticana, 90 anni di voce urbi et orbi

CITTA’ DEL VATICANO – La Parola, per spandersi attraversi i cieli e raggiungere tutti gli angoli della Terra, deve per forza passare per l’etere. Non si scappa. Fu così che, novant’anni fa esatti, venne alla luce quel gioiellino di competenza tecnico-giornalistica accompagnato da altrettanta sottigliezza politico-diplomatica che oggi chiamiamo, per l’appunto come novant’anni fa esatti, Radio Vaticana. Piccola, sì, ma valla a far tacere se sei bravo: Laudetur Jesus Christus, Sia lodato Gesù Cristo. Nemmeno Goebbels riuscì ad imporle il silenzio. Nella Polonia occupata stenografavano le trasmissioni e ne distribuivano i testi, copiati anche a mano.
Non fu essa, la Radio, a sconfiggere il nazismo ma di certo dette molto ma molto fastidio al gerarca e ai suoi pari, così come oggi viene udita non dalle masse internettesche, ma da chi deve essere ascoltata. Vecchia regola del giornalismo: i lettori non vanno solo contati, ma pesati. Di là dal Tevere lo sanno, e lo tengono bene a mente.

Papa Pio XI e Guglielmo Marconi danno inizio alle trasmissioni di Radio Vaticana (era il 12 febbraio 1931)

La cronaca ci dice del 12 febbraio 1931 e di un Guglielmo Marconi che – persino imbarazzato, lui abituato ad avere a che fare con principi e potenti – avvicina Pio XI al microfono e gli sussurra: “Santità, la potranno ascoltare simultaneamente su tutta la superficie della Terra”. Caspita, se avessero dato certa roba in mano a Paolo di Tarso sai che effetto. Del resto anche Papa Luciani sosteneva che, in tempi interconnessi come gli attuali, l’Apostolo delle Genti avrebbe scelto senz’altro di fare il giornalista.
Per capire come si arrivò a creare la Radio Vaticana, però, è bene leggere in controluce un testo scritto da uno dei migliori storici italiani contemporanei: Alberto Monticone. Si tratta de “Il Fascismo al microfono”: descrive bene come all’epoca dei fatti il regime fosse in vantaggio clamoroso sull’uso dell’etere a fini di propaganda e formazione delle menti.
Per impedirgli di arrivare anche alle anime, una Chiesa già in collisione con Mussolini su chi dovesse gestire i giovani italiani decise di combattere ad armi il più possibile pari. I contatti con Marconi già erano stati avviati nel 1918, ma la contezza del tempo da certe parti è tutta particolare e la cosa languiva. Si capì alla fine che occorreva sbrigarsi, così Pio XI si avvicinò al microfono quella mattina del 1931, e parlò al mondo.
Ma parlò in latino. Lingua ufficiale, il latino, di Santa Romana Chiesa. Però lingua morta. Il discorso si intitolava “Qui arcano Dei”, con involontario richiamo all’incomprensibilità che ancor più strideva con la promessa di rivolgersi a tutti: non credenti e miscredenti compresi. Si rimediò un minuto dopo, grazie all’opera di un gesuita chiamato padre Gianfranceschi che introdusse notiziari in tutte le lingue – romanze e non – per ovviare al problema. Soprattutto, il gesuita superò con eleganza lo spirito e la lettera dei Patti Lateranensi, firmati appena due anni prima. Nel senso che quest’ultimi prevedevano, per gentile concessione al Vaticano, la possibilità di appoggiarsi, nelle corrispondenze di vario titolo con il resto del mondo, ai canali del Regno d’Italia. Cioè: attraverso il controllo dell’Ovra fascista. Gianfranceschi, con quella sensibilità tipica del suo ordine per le nuove tecnologie comunicative (per cui ancora adesso i gesuiti arrivano sempre primi, su Twitter come su Second Life), scavalcò rendendolo obsoleto il Patto del Laterano, uccellando l’Ovra e i suoi derivati.

Il dipinto nella Sala Marconi di Radio Vaticana

Accadde quello che contemporaneamente accadeva anche con l’Osservatore Romano: chi voleva informarsi sul serio o leggeva gli Acta Diurna di Guido Gonella, o si sintonizzava su Radio Vaticana. Ciao Eiar. Non era il solo fascismo l’obiettivo della manovra. Con la Radio, Pio XI interloquiva direttamente con i preti ed i cattolici messicani vittime di una vera e propria persecuzione, o gli spagnoli o gli amati figlioli belgi. Perché la lotta, come veniva percepita all’epoca, non era solo contro i totalitarismi, ma anche contro i laicismi intolleranti. E questo comportò una sorta di mutazione genetica. Altra vecchia regola del giornalismo: nella comunicazione conta chi comunica, ma anche chi riceve la comunicazione. Se l’emittente era stata istituita per trasmettere il Verbo, fu chiaro in pochi anni che le urgenze di chi ascoltava non si esaurivano con la messa e le conferenze teologiche.
Il successore di Gianfranceschi, padre Soccorsi SJ, aumenta ulteriormente i notiziari poliglotti e di conseguenza crescono le proteste. Non degli ascoltatori, ma di certi governi. A tutti viene risposto: è un lavoro autonomo da quello della Segreteria di Stato, si tratta di iniziative personali (terza regola: dare sempre la colpa ai giornalisti, specie se gesuiti).
Nel ’39 assurge al Soglio un cardinale molto sensibile alla comunicazione. Pacelli sarà il primo papa a usare personalmente la macchina da scrivere e a rivolgersi tramite la Radio al mondo, per una serie di discorsi programmatici e universali. Come per il Natale del 1942. I nazisti hanno avviato la Soluzione Finale. Pio XII ricorda urbi et orbi “le centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”. Disse troppo poco, per salvare gli ebrei? La risposta agli storici. Ma chi volle intendere, intese benissimo.

Padre Gianfranceschi, primo direttore di Radio Vaticana

I nazisti intesero benissimo, ad esempio. Del resto il Papa aveva usato lo stesso linguaggio felpato ma chiaro per denunciare al microfono il Patto Ribbentrop-Molotov quando ancora il mondo non ne era nemmeno a conoscenza. Ugualmente si regolerà, nel ’44, per annunciare che la Chiesa sceglieva la democrazia come regime politico più confacente ai suoi dettami. Aprite bene le orecchie, qui parla la Radio Vaticana e sia lodato Gesù Cristo.
Certo, dal dopoguerra in poi le opinioni pubbliche delle democrazie non hanno più avuto bisogno di ascoltare le note del Christus Vincit per poi sapere cosa accade dietro l’angolo. Ma, di nuovo, gli ascolti contano sì per numero, ma anche per qualità. Non c’è notiziario della Radio Vaticana che non venga seguito e vagliato attentamente da governi e ambasciate, ma anche da esperti ed analisti. Perché la Chiesa è universale e universalmente radicata; raccoglie e rilancia informazioni come pochi altri sanno e possono fare.
Per capire: quando la storica Raffaella Perin, anni fa, ha voluto scrivere un saggio in materia (“La Radio del Papa”, edito dal Mulino) è dovuta andare a recuperare pile di materiali presso il Monitoring Service della BBC, il Sonderdienst Seehauss tedesco, l’americano Foreign Broadcast Intelligence Service. Non c’è bisogno di aggiungere altro. O meglio, qualcosa c’è. E cioè che anche la Radio Vaticana può trarre in inganno.
Erano gli anni del Concilio: Primavera della Chiesa, e infatti di primavera si trattava. Un collegamento in diretta da Piazza San Pietro, per la messa di Pasqua celebrata da Paolo VI. Il compassatissimo speaker prese il foglio in mano, pronto a dare avvio alle trasmissioni con il canonico “Sia lodato Gesù Cristo, qui parla la Radio Vaticana”. A questo punto alzò lo sguardo sul foglio e vide l’orrore: una cavalletta saltata fin lì chissà se dai Giardini dietro il Palazzo Apostolico, o dal Gianicolo. Pare fosse stato vittima di un trauma infantile, per colpa di un fratello che gliene aveva nascoste una decina nel letto. La cavalletta lo guardò, muovendo le antenne. Lui, prima di svenire, ebbe solo il tempo di rantolare (in diretta, in collegamento con il mondo che ascoltava): “Qui parla Gesù Cristo, sia lodata la Radio Vaticana”. E si abbatté al suolo. Il Diretto Interessato, ad ogni modo, non smentì la sua presenza al microfono. (agi)

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