È inevitabile quando si racconta una realtà tanto complessa, ma non dobbiamo smettere

“Sanpa”, quando le tenebre prevalgono sulla luce

ROMA – Non entro nel merito della docuserie di Netflix “Sanpa”, che non ho visto e quindi non posso giudicare. Ne scrivo a margine solo per notare come l’operazione mediatica sia stata sicuramente ben condotta.
I teaser hanno reso immediatamente questo seriale un prodotto di culto, come si usa dire oggi, con modalità analoghe a quelle che sempre di recente hanno reso celeberrima “La regina degli scacchi”. Le strategie di marketing devono cioè fare in modo che di un film se ne parli comunque, in fondo proprio il risultato che questo stesso articolo conferma.

Vincenzo Muccioli

Un secondo riconoscimento che è dovuto a Netflix è avere diffuso questo prodotto su San Patrignano senza alcun aggancio di cronaca, in un lungo periodo nel quale i temi delle dipendenze, dei comportamenti a rischio e del disagio giovanile non sono particolarmente di moda. Rispetto a questa affermazione vanno tenute in conto alcune meritorie eccezioni librarie, giornalistiche e video che, per esempio, hanno illuminato l’inferno di Rogoredo: una sorta di “zoo di Berlino” trasferito di mille chilometri e quarant’anni.
A parte questi episodi occasionali, le droghe sono coperte da una coltre silenziosa che dura da quando questa problematica sociale, tutt’altro che risolta, è percepita come meno grave: l’elemento di allarme, infatti, non è stato mai davvero il “ragazzo drogato”, come si diceva un tempo, ma il ragazzo che per procurarsi la droga scippava la signora. Era cioè l’epifenomeno criminale a interessarci, non il dramma sociale ad esso soggiacente. Un atteggiamento forse inevitabile ma miope peraltro confermato dal successo ottenuto in questi ultimi anni da tutte le fiction o docufiction legate al narcotraffico, come “Narcos”, “Gomorra” e “Suburra”.
Un inciso: le dipendenze sono oggi un problema più grave in quanto sono progressivamente cresciute nel corso degli anni la quantità e diffusione delle sostanze psicotrope e la varietà di persone che ne sono dipendenti, ma soprattutto si è drammaticamente abbassata l’età di approccio a tali sostanze.
Se relativamente alla produzione di Netflix non ho altro da aggiungere, credo di poter dire con cognizione di causa diverse cose sulla comunità di San Patrignano che possono forse spiegare agli spettatori di questi film la realtà che essi illustrano.

La prima ovvia considerazione è che San Patrignano è una comunità di recupero fondata e composta da esseri umani, quindi fallibili. E poiché il numero dei nostri errori è proporzionale alle azioni che compiamo, chi fa molto sbaglia di più. A Sanpa si fa moltissimo. Non soltanto nel senso che da quella collina riminese sono passati e fortunatamente usciti decine di migliaia di ragazze, ragazzi ed esseri umani restituiti a una vita “normale” (questo termine non significa nulla: qui lo intendiamo come lavoro, famiglia, capacità di reggersi sulle proprie gambe), ma soprattutto nel senso che quest’attività Vincenzo Muccioli e i suoi successori l’hanno svolta pioneristicamente, in Italia e nel mondo, almeno per quanto riguarda comunità di recupero di queste dimensioni.
Il problema non è solo quantitativo. Come sa bene chiunque lavori nel sociale e nella assistenza, più persone bisognose di cure stanno nello stesso posto e più le difficoltà aumentano in senso esponenziale. In qualche misura, peraltro, uno dei tanti regali non richiesti che la pandemia ci ha fatto è averci mostrato come basti convivere forzatamente in un posto, anche tra famigliari o persone abituatissime a stare tra di loro e senza particolari problemi, per subire dei risvolti emotivi e relazionali non facili da gestire. Si figuri quando questa problematica è trasportata nell’ordine delle centinaia o migliaia di persone, delle quali gran parte con problemi di disagio e di estrema fragilità e/o con esperienze spesso devastanti di degrado, di abuso, di violenza.

Vincenzo Muccioli con Marco Pannella

Questo mestiere, a Vincenzo Muccioli e ai suoi, nessuno lo ha insegnato perché nessuno lo faceva e dunque la quantità di errori che possono essere stati commessi è stata conseguente. Inoltre chi dirige una comunità di recupero, così come un prete (e per altri versi anche un avvocato o un giornalista), ha il dovere prioritario di tutelare l’interesse delle persone che gli sono affidate e dunque i concetti di verità, trasparenza e persino di giustizia in senso civile e penale devono essere in qualche misura subordinati a tale interesse, anche se contemperare tutte le esigenze non è certo facile.
In più, dobbiamo considerare che Vincenzo Muccioli era fisicamente e caratterialmente un uomo particolare, molto carismatico, un “guru” ha detto qualcuno, sin dall’aspetto fisico. Alto, grosso, massiccio, una voce che sembrava un tuono, una sorta di Mangiafuoco abituato inoltre, essendo di provenienza molto semplice, a relazionarsi ed esprimersi in toni e modi estremamente decisi che certo non agevolavano i rapporti diplomatici.

Vincenzo Muccioli con Paolo Villaggio

Altro elemento non irrilevante anche se oggi molto meno comprensibile, è l’ideologizzazione che accompagnava e minima parte accompagna ancora il problema delle droghe. Diciamo, tagliando con l’accetta, che c’erano una sinistra libertaria favorevole alla depenalizzazione e una destra autoritaria per la repressione: due strade, come sa molto bene chi anche solo occasionalmente le bazzichi, che non portano da nessuna parte, ma lasciamo da parte questo aspetto molto complesso e non del tutto centrale per il discorso che stiamo facendo.
Ho avuto occasione di conoscere e intervistare più volte Vincenzo Muccioli e di andare spesso nella comunità di San Patrignano, per seguire la vita quotidiana e per i grandi eventi alla cui comunicazione ho dato un contributo, soprattutto collaboro con i loro giornali da ormai quasi 30 anni. Ripeto che non intendo entrare nel merito di qualcosa che non ho visto: leggendo il sottotitolo “luci e tenebre di San Patrignano”, il pay-off “quando cerchi la verità puoi trovarne più di una”, i molti commenti che ne ho letto e considerando la linea dei prodotti similari, rilevo solo un aspetto, senza acrimonia, anzi lo considero consustanziale a qualunque forma di comunicazione.

La Comunità di San Patrignano

Quando si offre come dice Netflix un ritratto a “luci e tenebre” (tenebre, non ombre) di una realtà tanto complessa e articolata saranno inevitabilmente le seconde a prevalere. Psicologicamente è ben noto che sono gli elementi negativi di un ritratto a colpirci e comunque la composizione di bianco e nero non riesce mai a rendere le infinite sfumature di grigio della realtà.
Certo non per questo dobbiamo smettere di raccontare. Ma dobbiamo essere consapevoli che la nostra è per l’appunto una narrazione e non la realtà oggettiva, tanto meno la “verità”.
Pensiamo, sempre per restare al tema della droga, alle fiction che abbiamo citato e alle polemiche infinite che hanno suscitato, con la contrapposizione tra chi ritiene che così si infanghi indiscriminatamente una realtà, per esempio quella di Scampia o addirittura quella della Capitale, che sembra soggetta a una cupola criminale che tutto controlla, e dall’altra parte chi invece sostiene che proprio queste fiction aiutino la sensibilizzazione su un problema che viene occultato.

Gian Marco e Letizia Moratti con Vincenzo Muccioli

Questa considerazione si accompagna ad altre delle quali chi fa il mestiere di giornalista o si occupa di informazione e comunicazione è ben consapevole: qualunque cosa venga mostrata, scritta o detta all’interno di una testata registrata o di un canale mediatico rientra in una linea editoriale concordata tra editore e direttore, è una voce, una interpretazione dei fatti che si raccontano. Ovviamente non significa che il giornalista, in particolare, faccia ciò che vuole e possa ignorare o addirittura corrompere le notizie che riporta. Ma pensiamo anche alla perennemente dibattuta questione della Rai che, in quanto Servizio Pubblico, si pretenderebbe fosse di un’astratta oggettività: le leggi sottopongono l’azienda al controllo del Parlamento e non hanno trovato modo migliore di garantire il pluralismo che suddividere reti e testate secondo linee politiche editoriali diverse.
In conclusione: come operatori dell’informazione e della comunicazione dobbiamo cercare di far comprendere ai nostri destinatari che possiamo cercare di raccontare nel modo migliore qualcosa che però, inevitabilmente, sfugge alla nostra narrazione. E che soprattutto le forme narrative più emotivamente coinvolgenti, come quelle video, esercitano un effetto noto come “meta comunicazione”, che è spesso di gran lunga prevalente sulla realtà oggettiva, anche in funzione degli atteggiamenti pregressi di chi guarda.
Questo non significa che noi sbagliamo. Ma che anche noi, come le persone delle quali parliamo, siamo esseri umani. Dunque perfettibili. (giornalistitalia.it)

Marco Ferrazzoli

I commenti sono chiusi.