MILANO – Per Giovanni Spadolini era la “fanciullina”, per la redazione del Corriere della Sera “la zarina”, per la gestione arrogante, secondo una definizione di Indro Montanelli, che quando ruppe con lei per la linea politica del quotidiano di via Solferino spostata a sinistra (fondando di lì a poco Il Giornale) la bollò come “dispotica guatemalteca”. Giulia Maria Crespi, discendente di una importante famiglia di cotonieri lombardi, proprietari del Corriere della Sera, è morta oggi a Milano all’età di 97 anni.
Ciò che non è mai mancato a Giulia Maria Crespi – donna di potere, imprenditrice brillante, discendente di una importante famiglia di cotonieri lombardi – è stato il coraggio. Come quando licenziò Spadolini (che pure aveva scelto in sostituzione del “conservatore” Alfio Russo) e nella sua veste di accomandataria della proprietà del “Corriere”, impose alla direzione Piero Ottone e dettò la nuova linea progressista del quotidiano della borghesia italiana. O come quando fu protagonista di Italia Nostra impegnata in mille battaglie e fondatrice del Fai – Fondo Ambiente Italiano.
«La vita mi ha dato molto, ma quello che mi ha dato se l’è ripreso con tanto di interessi, dal momento che le cambiali in bianco prima o poi vanno onorate. Sì, perchè ho avuto il cancro, anzi, ne ho avuto sei», ha scritto nell’autobiografia “Il mio filo rosso. Il Corriere e altre storie della mia vita” (Einaudi, 2015).
Nata a Merate (Lecco) il 6 giugno 1923, Giulia Maria Crespi è stata sposata due volte: con il conte Marco Paravicini (morto in un incidente dopo 4 anni di matrimonio nel 1956), padre dei suoi gemelli Aldo (morto tragicamente in un incidente stradale all’età di 65 anni lo scorso 14 maggio); con l’architetto Guglielmo Mozzoni (1915-2014).
Dopo la morte degli zii Mario e Vittorio Crespi e a seguito della grave malattia del padre Aldo nel 1960, Giulia Maria si trovò a gestire come accomandataria (ovvero responsabile della linea e del bilancio) la proprietà del Corriere della Sera. La “zarina” licenziò nel 1968 il direttore Alfio Russo e nominò Giovanni Spadolini, che avvicinò la linea politica del giornale al centrosinistra.
Dopo quattro anni anche Spadolini fu licenziato anticipatamente nel marzo 1972 e al suo posto nominò Piero Ottone. La procedura seguita fu giudicata autoritaria e indignò i giornalisti del Corriere, che al termine di un’agitazione ottennero di essere consultati dagli editori in caso di cambiamento del direttore.
Lo spostamento più a sinistra della linea politica del giornale coincideva però con una fase estremamente delicata nell’andamento finanziario del gruppo editoriale, che chiuse il 1972 con un deficit di un miliardo e 800 milioni di lire. Già all’epoca si parlò molto della sua amicizia con Mario Capanna, leader della contestazione studentesca milanese nel 1968, al punto che alcuni si inventarono persino una storia d’amore tra i due; una leggenda su cui la stessa Giulia Maria ha sempre sorriso. Erano gli anni della direzione di Piero Ottone subentrato a Giovanni Spadolini, delle collaborazioni di Pier Paolo Pasolini e Goffredo Parise, ma anche di Antonio Cederna che la stessa Crespi chiamò per occuparsi di temi ambientali.
La nuova linea politica (solo in parte condivisa dagli altri comproprietari) e il crescente sbilancio della società, indussero Mario Crespi Morbio e gli altri proprietari a ritirarsi dal “Corriere”: il 26 marzo 1973 essi comunicarono a Giulia Maria l’intenzione di cedere le quote di loro proprietà. Questa, a sua volta, rese noto il 18 maggio che il padre Aldo lasciava la presidenza onoraria della società editrice e che ella stessa assumeva la piena responsabilità della gestione; pochi giorni dopo divenne di pubblico dominio che Mario Crespi Morbio e i Leonardi avevano venduto le loro due quote (ciascuna per 14 miliardi) agli industriali Gianni Agnelli e Angelo Moratti, che lasciarono a Giulia Maria la responsabilità della gestione editoriale.
Alla fine del maggio 1973 il “Corriere” formulava il suo nuovo programma di lavoro, ispirato a ideologie democratiche più avanzate. Tale programma, però, non era condiviso da alcuni autorevoli giornalisti del quotidiano, tra i quali Montanelli, che – inviso a Giulia Maria e colpevole di avere rilasciato un’intervista fortemente critica nei confronti del giornale al quale ancora apparteneva – venne immediatamente allontanato dal “Corriere” (17 ottobre 1973).
Nel frattempo la crisi finanziaria si aggravava ulteriormente e al 31 dicembre 1973 il passivo delle testate facenti capo al “Corriere” aveva raggiunto la cifra di sette miliardi e mezzo di lire. Le preoccupazioni per i proprietari non erano comunque solo di ordine economico, poiché all’interno del giornale la redazione stava conducendo un’aspra lotta rivendicativa rivolta allo scopo di accrescere la partecipazione dei giornalisti alla direzione del “Corriere”.
Quando il 30 marzo 1974 fu siglato un accordo fra il direttore Ottone e i redattori che instaurava una sorta di governo “collegiale” del giornale, né Giulia Maria né Agnelli né Moratti apprezzarono gli elementi innovativi e persino “rivoluzionari” contenuti in quell’accordo. Agnelli anzi prese in seria considerazione la possibilità di sganciarsi definitivamente da un’impresa editoriale che stava diventando, oltre che passiva, di difficile coordinamento.
Vi furono allora diversi progetti di nuove combinazioni finanziarie, ma le iniziative di Agnelli non portarono ad alcun risultato perché improvvisamente il 10 luglio – ufficialmente per motivi di salute, molto probabilmente per l’impossibilità di ottenere adeguati finanziamenti che le permettessero di rilevare le quote degli altri due comproprietari – Giulia Maria annunciò di ritirarsi dal giornale che era appartenuto per quasi novant’anni alla famiglia Crespi, e di avere ceduto la sua quota, per ventun miliardi, all’editore Andrea Rizzoli. Poco dopo Rizzoli acquistò, ad un prezzo assai minore (rispettivamente quattordici e nove miliardi), anche le quote di Moratti e di Agnelli.
Nel frattempo l’energica Giulia Maria dal 1965 al 1975 aveva lavorato attivamente nell’associazione Italia Nostra e una volta lasciato ogni incarico editoriale nel 1975, con Renato Bazzoni, fondò il Fai – Fondo Ambiente Italiano, di cui era fino ad oggi presidente onorario. Per quarant’anni da imprenditrice si è dedica attivamente a diffondere il metodo biologico e biodinamico in agricoltura e ha condotto, assieme un’azienda agricola di famiglia nella Pianura Padana, le Cascine Orsine, a Bereguardo, nelle campagne di Pavia. Ha, infatti, difeso sempre l’agricoltura in Italia, in particolare quella organica, senza veleni, insegnata e praticata nella sua grande azienda agricola della Zelata sulle rive del Ticino.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in tutta Italia, tra cui dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine “al merito della Repubblica italiana”.
I funerali di Giulia Maria Crespi si svolgeranno in forma strettamente privata. (adnkronos)
Crespi, un impero nato da una filatura di cotone
Giulia Maria Crespi era discendente della famiglia che aveva creato nel 1878 la filatura di cotone Crespi di Nembro (Bergamo). Il fondatore della manifattura fu Benigno Crespi (fratello di Cristoforo Benigno dello stabilimento di Crespi d’Adda e futuro comproprietario del Corriere della Sera). Nel 1902 Crespi costruì la centrale idroelettrica di Gromo (Bg), per garantire una fonte continua di energia allo stabilimento, il primo nucleo della futura Azienda elettrica Crespi e C. che disponeva di una linea di trasmissione tra Gromo e Nembro di 40.000 volt, tra le più potenti allora in Europa.
Alla morte di Benigno, nel 1910, il figlio primogenito Mario (1879-1962) ed i fratelli Aldo (1885-1978, padre di Giulia Maria) e Vittorio (1895-1963) ereditarono le tre imprese della famiglia: il cotonificio, l’azienda elettrica e il Corriere della sera. Della filatura sì occupò soprattutto Mario: nel 1931 dava lavoro a 1.000 operai ed aveva in funzione circa 54.000 fusi, quando all’inizio del ’900 i fusi erano poco più di 30.000 e gli operai 480. L’Azienda elettrica Crespi e C. fu invece oggetto delle attenzioni di Aldo che tra il 1919 e il ’21 ampliò la centrale di Gromo e realizzò quelle di Aviasco e Gandellino e tra il 1924 e il 1929 furono costruite cinque grandi dighe di ritenuta sull’alto Goglio, destinate a rifornire in particolare la centrale di Aviasco alla confluenza del Goglio con il Serio (e per la prima volta al mondo il salto d’acqua delle condotte forzate superò i 1.000 metri).
Dei tre fratelli, Vittorio fu quello che dimostrò minori interessi imprenditoriali, o per lo meno industriali. Appassionato di caccia e di pesca, seguì l’andamento delle vaste tenute agricole della madre e dedicò la maggior parte del suo tempo all’allevamento dei pregiati cavalli da corsa della razza del Soldo. Egli era particolarmente legato al fratello primogenito, al quale si affidò anche per la gestione della più prestigiosa – e, fino agli anni ’60, una delle più remunerative – tra le imprese di cui deteneva la comproprietà, la società editoriale del Corriere della sera.
Dopo la morte del padre i giovani Crespi mostrarono subito di propendere per un atteggiamento diverso da lui, che era stato sempre rispettoso della libertà del giornale: infatti già nel 1912 Mario Crespi compì – senza successo – un pesante intervento sul direttore Luigi Albertini perché modificasse la sua linea di opposizione alle pretese protezionistiche degli industriali zuccherieri. In realtà il direttore non solo riuscì a scoraggiare i tentativi di interferenza da parte dei Crespi, ma accrebbe grandemente il proprio potere all’interno della società editoriale, soprattutto a partire dal 1920, quando (dopo il ritiro di Pirelli, Beltrami e Frua) acquisì il controllo di 22 carature rispetto alle 35 dei Crespi.
In seguito all’avvento del fascismo, però, i fratelli trovarono inopportuna e pericolosa la coerente posizione liberale assunta da Albertini e nel 1923 cercarono inutilmente di rilevare la sua quota.
Sebbene le vendite del quotidiano raggiungessero in quel periodo punte eccezionali (nel 1924 fu toccata la tiratura giornaliera di 800.000 copie), i tre fratelli erano preoccupati della crescente ostilità del regime, tanto più che il 2 luglio 1925 il prefetto di Milano minacciò la soppressione del “Corriere”.
Incalzati anche dalle violente polemiche di Farinacci, che li accusava di aspettare troppo a dimostrarsi convinti fascisti, i Crespi riuscirono a escogitare un cavillo legale (il fatto che l’accordo societario del 1920 non era stato ufficialmente registrato) che permise loro di estromettere finalmente Albertini. Questi, costretto a cedere la sua quota per la cifra invero cospicua di 72 milioni, si ritirò e il 27 novembre 1925 venne fondata una nuova società in accomandita (di cui socia accomandante era la madre Giulia Morbio) con il capitale di 180.000 lire equamente diviso tra i fratelli. Da allora in poi il “Corriere” si allineò disciplinatamente al nuovo corso fascista, mentre soprattutto Mario Crespi – che nel 1934 ricevette la nomina a senatore – manteneva frequenti contatti con Mussolini e non mancava di dare prove di fedeltà al regime.
Dopo l’8 settembre 1943 i Crespi stessi compresero che la Repubblica sociale italiana – di cui peraltro temevano la velleità socializzatrici – non avrebbe resistito a lungo. Decisero così, accanto alla formale ubbidienza alle direttive dei nazi-fascisti, di allacciare contatti anche con le forze della Resistenza, alle quali concessero ingenti finanziamenti e promisero persino – ma l’impegno non fu poi mantenuto – di versare dopo la caduta del fascismo gli utili realizzati dal giornale nel periodo repubblichino. Di questa “fronda” ebbe sentore il regime, che nel 1944 assoggettò Mario Crespi a un breve arresto domiciliare.
Dopo la Liberazione, dal 25 aprile 1945 al giugno 1946, il “Corriere” fu posto sotto regime commissariale e i Crespi si astennero dal frequentare il giornale. Superato un processo di epurazione, i Crespi tornarono al “Corriere” e poco dopo imposero le dimissioni al direttore Mario Borsa, riportando il giornale su una linea di prudente moderatismo.
Nel giugno del 1951 il capitale della società, rimasto invariato dal 1925, fu portato a 90 milioni, di cui 87 formalmente attribuiti alla moglie di Vittorio, Maria Teresa Bernasconi, e un milione a ciascuno dei tre fratelli Crespi.
Già allora comunque i rapporti tra i fratelli tendevano a incrinarsi, a causa della personalità della seconda moglie di Mario, Fosca Leonardi, che aspirava a svolgere un ruolo di protagonista nelle vicende del giornale. Si vennero così a creare tre distinti centri di influenza, anche se Vittorio preferiva rimettersi alle decisioni del primogenito. Accanto tuttavia al potere degli editori, si delineava quello non trascurabile dei giornalisti più anziani e più noti del “Corriere”. Furono principalmente costoro che nel 1961 si opposero alla candidatura di Giovani Spadolini avanzata dai Crespi in sostituzione del direttore Mario Missiroli (i fratelli allora dovettero ripiegare su Alfio Russo).
Il 22 giugno 1962 moriva a Milano Mario Crespi che, non avendo avuto figli neppure dalla prima moglie Ellade Colombo, lasciò per testamento ai figli di primo letto di Fosca Leonardi, Antonino ed Elvira, la proprietà della sua quota. Poiché l’anno seguente moriva anche Vittorio (che aveva avuto un figlio maschio, Mario), proprietari del “Corriere” rimasero, oltre ad Aldo, i giovani Antonino e Elvira Leonardi con la loro madre, Mario (che aveva aggiunto al proprio il cognome della nonna Morbio) e la figlia unica di Aldo, Giulia Maria. A questo cambiamento generazionale si accompagnò la chiara volontà, espressa soprattutto da Giulia Maria, di superare il tradizionale conservatorismo del quotidiano milanese.
I sentimenti democratici della Crespi si manifestarono spesso, nei confronti del giornale, in una forma non meno impositiva di quella che era stata propria dei genitori e degli zii. Persa la fiducia di Giulia Maria, nel 1968 Russo dovette perciò dimettersi e lasciare il posto al preferito Spadolini. Dopo qualche anno tuttavia neppure Spadolini fu in grado di soddisfare l’orientamento ideologico di Giulia Maria. Il 3 marzo 1972 l’energica figlia di Aldo allontanava Spadolini dalla direzione e lo sostituiva con Piero Ottone.
La procedura seguita fu giudicata autoritaria e indignò i giornalisti del “Corriere”, che al termine di un’agitazione ottennero di essere consultati dagli editori in caso di cambiamento del direttore. Lo spostamento più a sinistra della linea politica del giornale coincideva però con una fase estremamente delicata nell’andamento finanziario del gruppo editoriale, che chiuse il 1972 con un deficit di un miliardo e 800 milioni.
La nuova linea politica (solo in parte condivisa dagli altri comproprietari) e il crescente sbilancio della società, indussero Mario Crespi Morbio, figlio di Vittorio, e i due Leonardi – la madre era morta nel 1967 – a ritirarsi dal Corriere: il 26 marzo 1973 essi comunicarono a Giulia Maria l’intenzione di cedere le quote di loro proprietà. Questa a sua volta rese noto il 18 maggio che il padre Aldo lasciava la presidenza onoraria della società editrice e che ella stessa assumeva la piena responsabilità della gestione; pochi giorni dopo divenne di pubblico dominio che Mario Crespi Morbio e i Leonardi avevano venduto le loro due quote (ciascuna per 14 miliardi) agli industriali Giovanni Agnelli e Angelo Moratti, che lasciarono a Giulia Maria la responsabilità della gestione editoriale.
Alla fine di maggio del 1973 il “Corriere” formulava il suo nuovo programma di lavoro, ispirato a ideologie democratiche più avanzate. Tale programma però non era condiviso da alcuni autorevoli giornalisti del quotidiano, tra i quali Indro Montanelli, che – inviso a Giulia Maria e colpevole di avere rilasciato un’intervista fortemente critica nei confronti del giornale al quale ancora apparteneva – venne immediatamente allontanato dal “Corriere” (17 ottobre 1973).
Nel frattempo la crisi finanziaria si aggravava ulteriormente e al 31 dicembre 1973 il passivo delle testate facenti capo al “Corriere” aveva raggiunto la cifra di sette miliardi e mezzo di lire.
Le preoccupazioni per i proprietari non erano comunque solo di ordine economico – sottolinea l’Enciclopedia Treccani in una ricostruzione storica – poiché all’interno del giornale la redazione stava conducendo un’aspra lotta rivendicativa rivolta allo scopo di accrescere la partecipazione dei giornalisti alla direzione del “Corriere”.
Quando il 30 marzo 1974 fu siglato un accordo fra il direttore Ottone e i redattori che instaurava una sorta di governo “collegiale” del giornale, né Giulia Maria né Agnelli né Moratti apprezzarono gli elementi innovativi e persino “rivoluzionari” contenuti in quell’accordo.
Agnelli anzi prese in seria considerazione la possibilità di sganciarsi definitivamente da un’impresa editoriale che stava diventando, oltre che passiva, di difficile coordinamento. Vi furono allora diversi progetti di nuove combinazioni finanziarie, ma le iniziative di Agnelli non portarono ad alcun risultato perché improvvisamente il 10 luglio – ufficialmente per motivi di salute, molto probabilmente per l’impossibilità di ottenere adeguati finanziamenti che le permettessero di rilevare le quote degli altri due comproprietari – Giulia Maria annunciò di ritirarsi dal giornale che era appartenuto per quasi novant’anni alla famiglia Crespi, e di avere ceduto la sua quota, per ventun miliardi, all’editore Andrea Rizzoli. Poco dopo Rizzoli acquistò, ad un prezzo assai minore (rispettivamente quattordici e nove miliardi), anche le quote di Moratti e di Agnelli.
Quando nel 1978 morì l’ultimo rappresentante della seconda generazione dei Crespi, Aldo, nessuna dunque delle tre imprese possedute da Benigno apparteneva più alla famiglia. (adnkronos)