ROMA – La fase emergenziale dovuta alla pandemia per il Covid-19 è ormai alle spalle e c’è da augurarselo, in via definitiva. In questi mesi i decreti governativi hanno cancellato diritti costituzionali fondamentali e hanno introdotto limiti allo svolgimento del lavoro, imponendo, laddove fosse possibile, il ricorso allo smart working.
Si è trattato di misure eccezionali limitate nel tempo. Oggi quell’eccezionalità non esiste più e si dovrebbe tornare alla normalità.
Nella fase di emergenza nessun giornale ha interrotto la propria produzione. La libertà di stampa non è stata intaccata, ma tutti i giornalisti sono stati costretti a lavorare da casa: lo smart working ha regnato sovrano in tutte le redazioni e in alcuni casi si è rivelato, non una soluzione temporanea dovuta alla contingenza pandemica, bensì una prospettiva per il futuro. Qualche direttore-editore ha pensato che il futuro della professione giornalistica possa e debba identificarsi con lo smart working, cancellando le redazioni come luoghi fisici per la creazione quotidiana del giornale.
È bene, perciò, che la categoria dei giornalisti si interroghi approfonditamente su questa modalità di esercitare la propria prestazione professionale e sui “benefici”, che essa può produrre, ma anche sui “malefici”, che una innovazione di questo tipo può apportare al lavoro del giornalista.
Esistono, ovviamente, aspetti psicologici, ma anche sociologici, che non vanno sottovalutati, anzi, che devono essere approfonditi con molta attenzione. Vi è poi un aspetto sindacale, che è quello relativo alle norme contrattuali. Prima, però, di avventurarsi nelle richieste di nuove norme è opportuno verificare quali siano gli strumenti che già oggi esistono nel contratto collettivo di lavoro e che possono essere richiamati per affrontare la questione.
Il Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico è un corpus normativo costruito nel corso degli anni con l’obiettivo di regolare l’esercizio di una professione difficilmente inquadrabile nell’ambito del lavoro subordinato. Non a caso l’art. 7 del Contratto, nello stabilire l’orario di lavoro settimanale del giornalista, specifica che “l’esercizio dell’attività giornalistica rende difficile l’esatta determinazione del numero delle ore di lavoro e della loro distribuzione”.
Perché questa precisazione? Per la semplice constatazione che il lavoro giornalistico non si svolge tutto e sempre nelle stanze della redazione. Il cuore di ogni giornale quotidiano è la cronaca e i cronisti svolgono la loro attività per le strade, nelle questure, negli ospedali, ecc., ovunque accadono fatti di cronaca di interesse generale. Il vecchio adagio, che il giornalismo è un mestiere che si fa consumando la suola delle scarpe, ancora oggi indica lo spirito con cui si deve fare questo lavoro. Una cronaca composta tutta in redazione, assemblando comunicati stampa, non è una cronaca, ma l’anticamera della morte del giornale.
I giornali, però, non sono fatti soltanto di cronisti. Vi sono molte altre mansioni, che svolgono principalmente la loro attività all’esterno. Si pensi ai corrispondenti dall’estero, si pensi agli inviati, ai critici, agli informatori politico-parlamentari o ai vaticanisti, tutte mansioni che comportano inevitabilmente una presenza extra redazionale. Anche per questi giornalisti l’essere prevalentemente fuori dalla redazione è una prerogativa essenziale e lo svolgimento del loro lavoro è già regolato dal Contratto Collettivo.
Con lo sviluppo tecnologico e la possibilità di scrivere da remoto e trasmettere i propri “pezzi” in tempo reale alla propria redazione o addirittura direttamente in tipografia, si è iniziato ad utilizzare lo smart working anche per il lavoro tipicamente redazionale.
A questo punto è necessaria una riflessione. Il giornale, anche nella legge sul diritto d’autore, è considerato un’opera intellettuale collettiva. Collettiva non vuol dire che sia soltanto la somma di contributi individuali, ma che sia il frutto di una collettività redazionale.
La redazione, nella produzione di qualsiasi giornale, è lo strumento fondamentale attraverso il quale passano la discussione e il confronto per arrivare alla elaborazione complessiva del prodotto che ogni giorno viene confezionato. Di conseguenza, la smaterializzazione della redazione, che si potrebbe tecnicamente realizzare con l’applicazione integrale dello smart working, potrebbe produrre un danno incolmabile al giornale stesso.
A tutela del lavoro in smart working è intervenuto già nel 2017 il legislatore con la legge n. 81 del 22 maggio, che ha voluto individuare “misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Queste norme si applicano anche al lavoro giornalistico nel quadro, ovviamente, di quanto stabilito nel Contratto Collettivo.
Ma cosa in sostanza prevede questa legge? In primo luogo che lo smart working si possa attuare in accordo tra le parti, intendendo per parti il datore di lavoro e il singolo lavoratore. Una disposizione questa che trova però un limite nel contratto di lavoro, laddove si prevede l’obbligo di un preventivo accordo collettivo da stipulare tra il direttore e il Comitato di redazione.
Un altro punto rilevante della legge è quello che prevede il diritto del lavoratore in smart working a mantenere il trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi per i lavoratori che svolgono le medesime mansioni all’interno della stessa azienda. Infine, elemento non secondario, c’è l’obbligo del datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza di chi svolge la propria prestazione lavorativa in smart working.
Questo è quanto prevede la legge e non è poco. Ma le norme di legge devono trovare applicazione nell’ambito delle disposizioni del Contratto Collettivo. Non si deve mai dimenticare che un passaggio di estrema rilevanza nel lavoro giornalistico è quello definito negli artt. 6 e 34 del Contratto. In sostanza, nelle aziende editoriali di quotidiani e periodici, l’organizzazione del lavoro è di esclusiva competenza del direttore del giornale, sentito il Comitato di redazione. Ciò significa che l’organizzazione del lavoro non è mai di competenza del datore di lavoro, ovvero dell’editore. È questo il passaggio centrale del Contratto Collettivo di categoria e del lavoro giornalistico.
Ne consegue che lo smart working non può essere unilateralmente introdotto dall’azienda editoriale, né tanto meno contrattato individualmente tra azienda e singolo giornalista. Lo smart working deve essere previsto nell’organizzazione del lavoro, frutto del confronto tra direttore e Comitato di redazione.
A tutto ciò si deve aggiungere che nei casi di smart working, per l’obbligo di tutela della salute e della sicurezza del lavoro previsto dalla legge 81/2017, devono inevitabilmente trovare applicazione le norme sull’ambiente di lavoro e la tutela della salute previste dall’art. 42 del Contratto Collettivo, nonché dall’allegato E del contratto stesso.
Questo è quanto oggi già previsto dal Contratto Collettivo in materia di smart working. È sufficiente? La risposta sarà data nel futuro, ma una cosa è certa: non siamo all’anno zero e non siamo privi di norme che possano tutelare il lavoro giornalistico. Un compito importante spetta ai Comitati di redazione, che sono chiamati a tutelare il corpo redazionale e a vigilare sulla corretta applicazione del Contratto Collettivo.
Sarà bene che i Comitati di redazione riprendano a svolgere la loro funzione, in ogni testata, di protagonisti e soggetti centrali, nella consapevolezza che la smaterializzazione delle redazioni comporterebbe ineluttabilmente il venir meno del loro ruolo e delle loro funzioni. (giornalistitalia.it)
Giancarlo Tartaglia
Segretario Generale della Fondazione Paolo Murialdi