ROMA – Il giorno dopo la clamorosa inchiesta del New York Times e del Guardian, che ha dimostrato come i dati dei profili Facebook di 50 milioni di elettori americani siano stati illecitamente utilizzati da Cambridge Analytica a fini elettorali, lo scandalo si allarga. E punta dritto al fondatore e amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg.
La senatrice democratica del Minnesota Amy Klobuchar sabato sera ha chiesto che Zuckerberg venga ascoltato dalla Commissione Giustizia del Senato affinché spieghi da quando la società sapeva degli abusi che Cambridge Analytica avrebbe commesso mentre era il motore della vittoriosa campagna elettorale di Donald Trump nel 2016 (venerdì Facebook ha cacciato dalla piattaforma Cambridge Analytica e i due scienziati responsabili della raccolta dei dati).
Ma anche nel Regno Unito vogliono ascoltare Zuckerberg visto il presunto coinvolgimento di Cambridge Analityca e di una società canadese in qualche modo collegata, nel referendum che ha portato alla Brexit. Il conservatore Damian Collins, che sta conducendo una indagine parlamentare sulle presunte influenze sul voto del giugno 2016, ora dice che le testimonianze rese dai dirigenti di Facebook e Cambridge Analytica non sono più sufficienti alla luce delle nuove cose emerse, e che quindi scriverà a Zuckerberg chiedendogli di presentarsi davanti alla commissione d’inchiesta.
Intanto l’inchiesta giornalistica promette altri colpi di scena perché alle rivelazioni fatte dall’ex dipendente Christopher Wylie al New York Times e al Guardian, si aggiunge il documentario che i giornalisti di Channel 4 hanno girato nelle scorse settimane negli uffici di Cambridge Analytica fingendosi potenziali clienti. Nel documentario i giornalisti avrebbero incontrato anche l’amministratore delegato di CA, Alexander Nix, che avrebbe svelato le tecniche di microtargeting usate nelle campagne elettorali a partire dalla profilazione dei dati Facebook degli elettori. Secondo il Financial Times, Nix in queste ore sta provando a bloccare la messa in onda del documentario. (agi)
Come Cambridge Analytica ha violato 50 milioni di profili Facebook
“Milioni di profili Facebook di elettori americani sono stati violati dalla società Cambridge Analytica, quando era al servizio della campagna di Donald Trump per la Casa Bianca, e i dati sono stati usati per realizzare un software in grado di influenzare la decisione sul voto”.
Lo rivelano in esclusiva i quotidiani The Observer – The Guardian e New York Times, che hanno raccolto le dichiarazioni di un whistleblower, Christopher Wylie, che ha lavorato con un accademico dell’Università di Cambridge per ottenere i dati: “Abbiamo sfruttato Facebook per raccogliere i profili di milioni di persone. E abbiamo costruito modelli per sfruttare ciò che sapevamo su di loro e mirare ai loro demoni interiori. È su questa base che l’intera società è stata costruita”, ha detto Wylie.
Cambridge Analytica è di proprietà del miliardario Robert Mercer, finanziere specialista in hedge fund, e al suo vertice c’era Steve Bannon, strettissimo consigliere di Trump cacciato improvvisamente dalla Casa Bianca nell’agosto del 2017. Documenti a cui The Observer ha avuto accesso, e confermati da un comunicato di Facebook, indicano che alla fine del 2015 il social network aveva scoperto che erano stati raccolti dati su una scala senza precedenti. Ma Facebook allora non informò i suoi utenti e adottò soltanto limitate contromisure per recuperare e proteggere le informazioni sensibili di circa 50 milioni di persone.
I dati raccolti con l’app thisisyourdigitallife sviluppata da Kogan
I dati sono stati raccolti da Cambridge Analytica attraverso l’app thisisyourdigitallife, sviluppata dall’accademico dell’Università di Cambridge Aleksandr Kogan, con un’attività non collegata ai suoi impegni universitari. Tramite una sua società, la Global Science Research, e in collaborazione con Cambridge Analytica, centinaia di migliaia di utenti sono stati pagati per sottoporsi a un test sulla personalità, e hanno firmato una liberatoria all’uso dei loro dati ai fini di studi scientifici.
Il punto è che la app ha poi raccolto anche i dati degli amici di Facebook di questi utenti, fino a raggiungere le decine di milioni di profili. Qualcosa di incompatibile con la politica dichiarata di Facebook che è quella di permettere la raccolta di dati soltanto al fine di migliorare l’esperienza degli utenti sulla piattaforma, vietandone la vendita o l’uso per scopi pubblicitari. Facebook ha adesso sospeso sia Cambridge Analytica sia Aleksandr Kogan.
Aleksandr Kogan è un giovane matematico russo-americano che fa il ricercatore a Cambridge. Esperto in big data, analisi dei comportamenti sociali e neuroscienze, ha un curriculum accademico impeccabile: laurea a Berkeley, master a Hong Kong, decine di pubblicazioni. È sua l’idea per risolvere il problema di CA: se servono milioni di profili di utenti Facebook, lui sa come fare. Crea una società ad hoc, Global Science Research, e inizialmente prova attraverso Amazon. Va sulla Mechanical Turk, dove per alcuni lavoretti digitali gli utenti vengono retribuiti con pochi centesimi, e offre un dollaro per chi compila un questionario online con i propri dati personali. Per un po’ funziona, ma Amazon se ne accorge e lo blocca.
Amazon scopre e blocca Kogan che si rivolge a Facebook
A quel punto prova con Facebook: crea un app che sembra un gioco, tu rispondi alle domande e ottieni un tuo identikit digitale, ma nel frattempo Kogan accumula dati, ufficialmente per fini scientifici, è un ricercatore di una delle più prestigiose università del mondo in fondo; e li passa a Cambridge Analytica. Quei dati sono un tesoro: dicono tutto su 50 milioni di elettori. Gusti, paure, speranze. Consentono di mandare messaggi mirati. A quel punto Mercer decide di investire 15 milioni di dollari in una partnership con Slc in vista della corsa alla Casa Bianca. E inizia a giocare.
Robert Mercer è un personaggio curioso. È di una riservatezza proverbiale. Quasi maniacale. Vive praticamente recluso a Long Island, non lontano dal blindatissimo quartiere generale dell’hedge fund di cui è stato leader indiscusso fino a qualche mese fa.
A dispetto del fatto di essere uno dei “re” di Wall Street, ci sono pochissime sue foto in giro (in compenso il suo yacht “The Sea Owl” è fotografatissimo). In uno dei suoi rari interventi pubblici ha detto: “Amo la solitudine dei laboratori di computer di notte. L’odore dell’aria condizionata negli uffici vuoti. Il rumore che fanno i dischi nei computer e il clac delle stampanti”. Questa immagine da eremita informatico va combinata con due altri elementi: uno noto, è il fondatore di Cambridge Analytica appunto; l’altro nuovo, sua figlia Rebekah Mercer è alla testa del più importante comitato elettorale dei repubblicani. E i Mercer sono i principali donatori di fondi per la corsa alla Casa Bianca, naturalmente contro i democratici.
Inizialmente i Mercer e Cambridge Analytica si schierano con Ted Cruz, che sembrava il favorito. Ma subito dopo i primi test elettorali, cambiano cliente – in circostanze non chiare – e puntano sull’outsider Donald Trump. In campagna elettorale così si verifica un singolare processo: Mercer finanzia la campagna di Trump; a capo della campagna c’è Steve Bannon; Trump assolda Cambridge Analytica (di Mercer) che viene pagato molti milioni di euro per i suoi servizi; gli assegni vengono recapitati ad un indirizzo di Beverly Hills dello stesso Bannon, che era stato uno dei primi capi di CA oltre che azionista della società fino a qualche mese fa.
La corsa alla Casa Bianca segnata dalle interferenze russe
La corsa per la Casa Bianca come è noto viene segnata da voci su presunte interferenze russe (sulla quali è in corso una indagine federale). Non si tratta solo delle cosiddette fake news. In molti casi si tratterebbe di centinaia di bot, profili finti gestiti attraverso un algoritmo e diretti dalla misteriosa Internet Research Agency di San Pietroburgo. In diversi casi si registrano attacchi hacker ai database dei partito democratico. Vengono rubati moltissimi dati, l’ipotesi è che possa esserci materiale compromettente sulla candidata democratica Hillary Clinton e la sua gestione scorretta delle email quando era al Dipartimento di Stato.
Il “malloppo” viene passato dagli hacker (tuttora ignoti) a WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assange. E qui torna in campo Cambridge Analytica: si scoprirà mesi dopo che l’amministratore delegato Alexander Nix era andato direttamente da Assange a chiedere di avere quei dati. Ma Assange sostiene di avergli risposto di no.
Intanto nel Regno Unito si svolge una battaglia decisiva: il referendum che doveva decidere se restare o no nell’Unione Europea. Come è noto il 23 giugno 2016 vincerà la scelta della Brexit. Un successo anche per Steve Bannon che dal 2012 è un amico e sodale di Nigel Farage, il leader del partito Ukip che ha guidato il movimento per la Brexit (nel 2014 Bannon aprirà a Londra la sede britannica del suo sito Breitbart dicendo al New York Times che quello era “l’ultimo fronte della guerra politica e culturale in corso”). Vince la Brexit, insomma, e solo qualche mese dopo il quotidiano The Guardian scopre che dietro la campagna ufficiale per il “Vote Leave” c’è una oscura società di analisi di dati web, basata a Victoria, nella Columbia Britannica. In Canada. Ha un piccolo ufficio sopra un negozio, si chiama Aggregate IQ ed è stata la destinataria della metà del budget totale di “Vote Leave”: quattro milioni e mezzo di euro. Ma anche altri tre gruppi di sostenitori della Brexit si sono rivolti ad Aggregate IQ.
Come è possibile che una società così piccola e marginale abbia giocato un ruolo così importante nel referendum britannico? L’inchiesta del Guardian è durata mesi e alla fine è stata ottenuta questa spiegazione ufficiale: “Li abbiamo trovati su Internet, li abbiamo sentiti al telefono e li abbiamo scelti perché erano i più bravi”. Solo che il Guardian ha verificato questa affermazione su Google, e al tempo della campagna referendaria non c’era nessuna referenza su Aggregate IQ, nessun articolo, nessun link. Era introvabile. Poi improvvisamente una traccia è emersa: durante le primarie americane Aggregate IQ ha ceduto l’uso di alcuni suoi brevetti: solo che non appartenevano alla società canadese. Appartenevano a Robert Mercer. (agi)
Facebook banna Cambridge Analytica: “Non succederà più”
Nei mesi scorsi sono usciti moltissimi articoli sul ruolo di Cambridge Analytica nelle elezioni americane e nel referendum britannico. Il ceo Alexander Nix inizialmente si vantava del successo (anche nel corso di una conferenza lo scorso novembre a Milano per esempio); poi ha capito l’aria ed è passato sulla difensiva.
A proposito della Brexit per esempio ha sostenuto giustamente di non aver avuto alcun ruolo (in effetti è stata Aggregate IQ come abbiamo visto). Ma nel frattempo uno dei primi dipendenti di Cambridge Analytica decide di parlare e contatta il New York Times e il Guardian. Si chiama Christopher Wylie, era con Nix in quel bar di Manhattan alla fine del 2013 quando il capo brindava perché aveva convinto Mercer e Bannon a fondare CA.
Nelle foto che girano da ieri si vede un giovane nerd con i capelli a spazzola rosa e un orecchino al naso. Ma nella vita reale Wylie non ha, però, “l’anello al naso” e nel 2014, dopo aver trovato Kogan a Cambridge e aver gestito quella partita delicatissima che è stata la raccolta dati di 50 milioni di persone, lascia Cambridge Analytica perché non ne condivide gli obiettivi e soprattutto i metodi: “Le regole per loro non contano nulla”, dice adesso.
Wylie per settimane aiuta i giornalisti del New York Times e del Guardian a collegare molti dei puntini di questa storia. Emerge con chiarezza che Facebook sapeva del problema dalla fine del 2015; che nell’agosto 2016 ha chiesto che venissero distrutti i dati ma non ha verificato che fosse stato fatto; e non ha informato nessuno. Anzi, ufficialmente ha negato il problema (così come Nix ha negato tutto davanti al procuratore federale a dicembre).
Facebook ha minimizzato fino a venerdì 16 marzo, qualche ora prima della pubblicazione della doppia inchiesta. Solo allora il vice presidente Paul Grewal ha scritto un lungo post per informare che Cambridge Analytica, Aleksandr Kogan e Christopher Wylie sono stati sospesi dall’uso della piattaforma.
Secondo Grewal in questa vicenda sono state violate le regole di Facebook: la app di Kogan è stata scaricato 270 mila volte, ma è stato possibile risalire ai profili degli amici di questi 270 mila utenti per arrivare a 50 milioni. Passare i dati a Cambridge Analytica costituisce la vera violazione che ora non sarebbe più possibile perché il processo di approvazione delle app è diventato più rigido.
Intanto, su Twitter il responsabile della sicurezza di Facebook Alex Stamos, ha cancellato i molti tweet che aveva fatto subito dopo la pubblicazione dell’inchiesta e in un altro tweet ha spiegato di averlo fatto non perché fossero scorretti dal punto di vista dei fatti, ma perché prima di scriverli “sarebbe stato meglio rifletterci con più attenzione”. Una frase perfetta per chiudere questa parte della storia. (agi)