ROMA – La liberazione dell’Italia, primo passo verso la democrazia, ha permesso di pervenire, dopo decenni di divulgazione della propaganda di regime e di censure contrastate solo dalla stampa clandestina, all’affermazione dei principi di base dell’informazione che verranno poi sanciti nel corpo dell’art. 21 della Costituzione.
La stampa clandestina ha recitato anch’essa un ruolo importante nella lotta per la liberazione e spesso, così com’è avvenuto per i partigiani, gli scritti rispondevano a un “nome di battaglia”.
Per affermare una realtà ben diversa dall’informazione e dalla propaganda sulle imprese di guerra, soprattutto dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti e l’inizio della dittatura, le pubblicazioni non legali, nel periodo della Resistenza, fecero capo a tutti i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, e i canali di diffusione erano costituiti dalle “staffette” (a conferma dell’importanza delle donne nella lotta per la liberazione, quella che viene definita “la resistenza taciuta”) e da canali territoriali riservati, come – ad esempio – le fabbriche, le farmacie, le tipografie ed altri luoghi ad alto indice di rischio.
Diversi quotidiani e periodici che ripresero dopo il 25 aprile il rango di organo di informazione alla luce del sole venivano pubblicati in clandestinità, con scarsità di mezzi e materiali, spesso stampati con un ciclostile e poche gocce d’inchiostro. Tra questi, “Il Popolo”, che poi divenne organo ufficiale della Democrazia Cristiana, pubblicato senza cadenza periodica tra l’ottobre del ’43 e la primavera del ’45, “Noi donne”, espressione del Gruppo di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà (Gdd), che nel dopoguerra si trasformò in periodico dell’Unione Donne Italiane (Udi), “Il Combattente”, espressione delle “formazioni Garibaldi”, “Giustizia e Libertà”, che si richiamava al Risorgimento mazziniano ed era antimonarchico e anticapitalista, “L’Italia libera”, che affermava i principi di base del Partito d’Azione, “Avanti!”, organo del Psiup, la cui edizione milanese era curata da Rodolfo Morandi, “l’Unità”, organo storico del Partito Comunista, e molti altri.
Prevalentemente diffusi nel Nord e nel Centro Italia, dov’erano peraltro più attive le lotte della Resistenza, avevano più di una redazione e più stampatori, spesso in locali improvvisati, angusti e sotterranei, per evidenti problemi di sicurezza.
Tra i primi a dare la notizia che tutto era finito (o quasi, perché ci furono gli strascichi anche negli anni seguenti, come sappiamo) fu Raf Vallone, che in seguito divenne uno degli attori italiani più affermati del cinema neorealista, del teatro e della televisione. L’edizione straordinaria de “l’Unità” di Torino con la notizia della liberazione dal nazifascismo la fece uscire lui, che era responsabile delle pagine culturali, condividendola con Davide Lajolo, che della testata era il redattore capo. Vallone era uomo del sud, calabrese nativo di Tropea, figlio di emigranti ante guerra, laureato in filosofia e poi in giurisprudenza, che veniva dalla scuola di Luigi Einaudi e Leone Ginzburg. Era stato anche calciatore, nella prima squadra del Torino, vincendo anche una Coppa Italia nel 1935.
Vallone faceva il servizio militare a Tortona quando ci fu l’armistizio, nel ’43, e poco dopo divenne partigiano, influenzato da Vincenzo Ciaffi, convinto antifascista che già dal 1929 aveva aderito al movimento “Giustizia e Libertà” che faceva capo a Carlo Rosselli e che in seguito aveva dato vita ai primi nuclei italiani clandestini grazie a Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, i citati maestri di Vallone, Einaudi e Ginzburg, Vittorio Foa, Carlo Levi, Cesare Pavese, Riccardo Bauer e molti altri.
Entrato in contatto con Antonio Bernieri, uomo di lettere, fondatore del Partito Socialista Rivoluzionario Italiano e da poco rimesso in libertà dopo essere stato oggetto di “particolari attenzioni” da parte dell’Ovra, Vallone venne arrestato dalle milizie fasciste e rinchiuso nelle carceri di Como in attesa di essere deportato in Germania. Ma, quasi fosse uno di quei film che avrebbe interpretato dopo la fine di quella assurda guerra, durante le fasi del trasferimento riuscì a fuggire, gettandosi nelle acque gelide del lago e salvandosi dalle raffiche delle SS.
Riuscì a tornare a Torino, dove continuò, nelle file del Partito d’Azione, l’attività di propaganda contro il regime nazifascista e a dare una mano ai partigiani delle Langhe, dove conobbe Davide Lajolo, il cui nome di battaglia era “Ulisse”, giornalista e scrittore, ma anche un ex gerarca fascista che era stato segretario federale del Partito Nazionale Fascista di Ancona e che aveva convintamente sconfessato il suo passato dopo l’armistizio, così come Vallone – pur scrivendo su “l’Unità” – non volle mai iscriversi al Pci perché contrario al regime staliniano, ma Togliatti non volle privarsi di lui al giornale.
Non tutti coloro che, firmando con il proprio nome o con quello “criptato” sui fogli del “giornalismo resistenziale”, hanno potuto – come Vallone – raccontare quel 25 aprile.
Carlo Merli ed Enzio Malatesta vennero fucilati il 2 febbraio del ’44 al Forte Bravetta, a Roma, su ordine del Tribunale Speciale tedesco. Entrambi trentenni, scrivevano sul foglio clandestino “Bandiera Rossa” (Malatesta era stato caporedattore de “Il Giornale d’Italia”) e pagarono con la vita per aver aderito al Movimento Comunista d’Italia. Eugenio Colorni, milanese, aveva fatto capo a “Giustizia e Libertà” e poi al Partito Socialista. Scriveva su riviste culturali e di opinione, tra le quali “Solaria” e “Civiltà moderna”.
Aveva patito il carcere di Ventotene assieme ad Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Umberto Terracini ed altri, era un convinto europeista, poi era fuggito dal confino di Melfi per andare a Roma, dove era stato molto attivo nella Resistenza romana. Venne gravemente ferito dai fascisti della “banda Koch” e morì il 30 maggio del ’44 sotto la falsa identità “Franco Tanzi”.
Ezio Cesarini, redattore de “Il Resto del Carlino”, dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, dopo essersi rifiutato di scrivere a favore della propaganda tedesca, entrò nella III Brigata Matteotti, venne arrestato nel gennaio del ’44, poco dopo l’eccidio dei fratelli Cervi, dalle milizie della Repubblica Sociale Italiana e poi ucciso il 27 di quel mese per rappresaglia a Borgo Panigale. A lui è dedicata la sala riunioni dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna.
La storiografia li ricorda come vittime civili della Seconda Guerra Mondiale, ma di certo ci sono stati altri cronisti, fotografi e documentaristi non di regime, anch’essi zittiti con le armi, che hanno pagato con la vita il prezzo più alto per contribuire a rivedere il sole del 25 aprile del ’45. Una data che ha un suo grande valore simbolico anche per la libertà di stampa, che ha persino dato adito, anni fa, a due noti giornalisti come Giampaolo Pansa e Giorgio Bocca di discutere di revisionismo sulle lotte partigiane, ma che per il mondo dell’informazione ha rappresentato l’inizio o il ripristino del valore fondamentale della libertà di stampa, per la quale i giornalisti si battono quotidianamente, che deve essere propria di una società che vive sotto il rassicurante cappello del diritto e della democrazia. (giornalistitalia.it)
Letterio Licordari