ROMA – Morì come visse. Scrivendo. Novant’anni fa, la sera del 25 luglio 1927, donna Matilde Serao stava per terminare una caustica rubrica dedicata alla vedova americana del tenore Enrico Caruso, rimaritata per la terza volta, quando la penna le scivolò di mano e poggiò il capo sullo scrittoio.
“L’Impareggiabile Direttrice”
L’ultimo pezzo uscì lo stesso l’indomani su “Il Giorno”, quotidiano napoletano che aveva fondato e che guidava dopo la separazione da Edoardo Scarfoglio. Il giornale non le sopravvisse. Un mese dopo la sua morte, i figli lo misero in liquidazione: l’ultimo numero coincise col trigesimo “della sua impareggiabile Direttrice”, come recitò l’annuncio che ne sospendeva le pubblicazioni.
Matilde, nata nel 1856 a Patrasso da un avvocato napoletano e da una nobile greca, si trasferì nel ‘61 a Napoli e dopo un’istruzione sommaria, ma corroborata da intense letture, si diplomò e vinse un concorso alle Poste, dove lavorò per quattro anni come ausiliaria telegrafista a 80 lire al mese.
Un impiego modesto ma sicuro che le permise di dedicarsi all’irrefrenabile passione della scrittura, sia letteraria sia giornalistica, con una fluviale ispirazione che l’accompagnò tutta la vita. Bella no, neanche da giovane, la Serao affascinò perdutamente il giornalista abruzzese Scarfoglio e lo sposò nel 1884. Vissero nella capitale, fra le altre avventure, quella del “Corriere di Roma”, ma presto si trasferirono sotto il Vesuvio fondando il “Corriere di Napoli”, che uscì il primo gennaio 1888 con i soldi del magnate Matteo Schilizzi. Alla rottura con l’editore diedero vita al Mattino, che apparve nelle edicole il 16 marzo 1892 con marito e moglie imprenditori di se stessi. La Serao codiresse il giornale (prima donna a farlo) fino alla separazione da Edoardo, che fu totale, umana e professionale. Gli avrebbe fatto concorrenza, dal 27 marzo 1904, con “Il Giorno”.
Personaggio centrale nella vita culturale e politica napoletana, la Serao si ritrovò coinvolta assieme al marito nell’inchiesta condotta dalla commissione governativa presieduta da Giuseppe Saredo, che all’alba del XX secolo sollevò il velo opaco del malaffare e del consociativismo nella pubblica amministrazione cittadina, ma che si concluse con esiti scarsissimi e da cui la coppia Scarfoglio-Serao uscì con qualche graffio appena.
Celebrata dal giornale che fondò (“Il Mattino” le ha intitolato un premio), Matilde Serao ha goduto di gloria da viva e di una fama, dopo morta, che ha resistito al tempo, ai mutamenti del giornalismo e alle mode letterarie. Ha suscitato l’ammirazione dei più impensati: il più ricordevole, Muammar Gheddafi, la esaltò nella sua visita a Roma a giugno del 2009, invitando alla sua lettura l’uditorio di un migliaio di donne molte delle quali nessuna pagina conoscevano di donna Matilde o ne ignoravano il nome.
Pubblichiamo di seguito due articoli della Serao che ne confermano l’attualità, entrambi dedicati all’informazione e destinati alla rubrica dei “Mosconi”. Il primo parla delle fake news; il secondo riguarda i giornali e l’opinione dei lettori sui giornalisti. Entrambi i pezzi – immaginando i byte e i social in luogo della linotype e del caffè, o il tablet piuttosto del cartaceo “lenzuolo” ottocentesco – sembrano scritti adesso.
Dal “Corriere di Napoli”, 11/12 agosto 1891
La falsa notizia
In quella psicologia del giornalismo che io ho tanto desiderio di scrivere, ma che non scriverò forse giammai, in questa psicologia che andrà a raggiungere nel limbo dei desiderii insoddisfatti tutti i romanzi, tutti i poemi, tutte le commedie che vorrei avere scritto o vorrei poter scrivere, in questa meravigliosa psicologia che rimarrà una delle mie più grandi opere inedite, un capitolo acuto ed anche divertente potrebbe essere, anzi sarebbe quello della falsa notizia.
È anche vero che la falsa notizia è stata il trionfo del giornalismo di venti anni, mentre adesso questa utile consuetudine si va perdendo e i giornali, quasi tutti e quasi sempre non stampano che notizie vere: ma è sempre una cosa bizzarra a studiarsi; la falsa notizia nel giornale; è sempre una delle estreme risorse; è sempre un minuto interessante in cui la gente si agita intorno a un’ombra.
Vi è la falsa notizia maliziosa, perfida, di colui che la lancia con maligna intenzione, che la vede fare il giro della stampa e che sa bene non essere efficace nessuna rettifica, nessuna smentita: rimane sempre qualcuno che crede a questa falsa notizia; vi è la falsa notizia ingenua, candidamente stupita, di colui che ha udito una parola per un’altra, che ha scambiato il nome di un personaggio con quello di una città, che scrive a orecchio e quindi sbaglia; vi è la falsa notizia strepitosa, clamorosa, inventata di chi ha l’abitudine di queste fantastiche invenzioni e che si diverte immensamente nell’agitazione che desta; vi è la falsa notizia timida, quasi tranquilla, di colui che desidera che questa notizia si avveri, e la falsa notizia arrabbiata, disperata di colui che non sa come occupare mezza colonna del suo giornale, che ne occupa altra mezza per confermare la prima notizia, poi vi ritorna su per ismentire le smentite, poi per ispiegare che la cosa va così e così, e infine, la quinta volta per dare ampia ragione a coloro che smentirono.
E ancora vi è la falsa notizia germogliata così, spontaneamente, ripetuta scioccamente, scioccamente creduta, che non è verosimile, che non sarà verosimile mai, che è l’indizio più profondo della stupidaggine umana; vi è la falsa notizia ricorrente, cioè quella che si rinnova ogni quattro, ogni sei mesi. Dio, quanti generi e quante forme di false notizie, alcune oneste e alcune disoneste, alcune perfide e alcune innocenti e tutte quante fonte di lavoro e di diletto al giornalista, fonte d’interesse pel lettore. Oramai, il regno della verità, il migliore, è stato fondato, nel giornalismo italiano, ma il sistema della falsa notizia anche aveva del buono, come vi può essere della onestà, della pietà, della carità, della utilità in fondo a ogni bugia.
Ormai la falsa notizia si fa rara, rara; e quando se ne pesca una, si rimane meravigliati, come di una cosa di altri tempi. Beninteso che questo non è il capitolo della psicologia del giornalismo, ma il riassunto, anzi il sommario di questo stupendo capitolo della sublime opera che non vedrà la luce, giammai.
da “Il Giorno”, 23/24 aprile 1912
Senza illusioni
Non c’è uno solo di noi che si faccia illusioni. Sappiamo di che si tratta. L’antica esperienza non sbaglia. Sappiamo benissimo che per tutte le anime semplici, per tutti gli esseri primitivi, per tutta la gente che non vede al di là del proprio naso, (e non tutti sono Cyrano, in questa bassa vallèa mortale) la colpa maggiore è nostra. Noi conosciamo tutti i segreti della guerra, ma non vogliamo dire la verità. Noi non ignoriamo nulla, ma nascondiamo le notizie sotto il velo più greve delle contradizioni e delle smentite.
È così. Nella famiglia borghese, come al caffè, l’onesto commerciante in mercerie spalanca il giornale, vi affoga dentro sino alla radice dei capelli (qualche volta l’onesto lettore è anche calvo, ma non si può mica preveder tutto…) sin che non torna a galla aggrappato alla solita cintura di salvataggio, che consiste nella solita insinuazione: “Il giornale è stato inventato per nascondere le cose che accadono”.
Forse non sa, il borghese panciuto e pianeggiante, che egli parafrasa l’altro celebre apostema: “La parola è stata inventata per nascondere il pensiero”, ma questa sua ignoranza non guasta. Non è la prima volta che, nello stesso minuto, due individui estranei, separati da molte migliaia di chilometri, in terre assolutamente lontanissime, si trovarono a pensare l’istessa cosa, o a dotare il mondo dello stesso prezioso frutto di una scintilla del loro cervello.
Quello che guasta moltissimo è la perseveranza con la quale, oramai, ognuno che sappia leggere un giornale, o conosca personalmente uno scrittore di giornali, incalza nelle sue asserzioni e nelle sue richieste. Perché pubblicare notizie col punto interrogativo? Perché non dire una parola sull’azione della squadra? Perché non rivelare il dietro-scena delle relazioni ultime tra l’Italia e le sue alleate? Perché non dire la parola della verità sull’atteggiamento dell’Inghilterra? E così di seguito.
Nel caffè, nella farmacia, in sala da pranzo, il pater familias proclama: “La colpa, vedete, è tutta dei giornali. Perché se i giornali dicessero quello che veramente accade, se non nascondessero i fatti, se non circondassero di tanti misteri gli eventi, si respirerebbe, si potrebbe ragionare. Ma si naviga nel buio. Non si sa nulla. Non si può prestar fede a una notizia, che l’indomani segue subito la smentita”.
In verità, l’ottavo peccato mortale è leggere un giornale moderno… Così predica l’onesto borghese, dalla sera alla mattina. E la figura del giornalista passa bieca su un fondo che sembra un basso fondo. Dopo di che, al primo allarme, lo stesso borghese è il primo a comprare una edizione speciale. (agi)